Una cresta che non c’era: la Cresta Botto al Plù

13 Apr 2021 | Articoli e racconti, News & Articoli

Dopo la relazione della Cresta Botto sul Monte Plù, in Val d’Ala, vi regaliamo due narrazioni dove la salita è vista con gli occhi di chi l’ha percorsa.

Il primo è un bello scritto di Chiara Ravera, il secondo di Luca Enrico, già apparso sul blog https://camoscibianchi.wordpress.com/ , a seguire la testimonianza di Enrica Grandis

foto Beppe Leyduan (https://camoscibianchi.wordpress.com/)

La cresta che non c’era

L’autrice impegnata nella salita

Quando mi hanno proposto la Cresta Botto al Monte Plu’, la prima reazione è stata cercare su Internet qualsiasi informazione o notizia in merito a cui aggrapparsi, come a un salvagente.

So, e dunque posso andare“.

Difficoltà, materiale in loco, una pur sommaria descrizione dei tiri, dell’accesso e della discesa: niente di niente. Grande lo sconcerto nell’appurare come qualcosa ancora sfugga all’onniscienza della rete. E poi i dubbi: se nessuno ne parla sarà brutto, poco interessante, magari pericoloso.

Complice l’entusiasmo degli amici, tuttavia, si và.

È un gruppo eterogeneo, il nostro: abbiamo alpinisti navigati e avvezzi all’esplorazione e una nutrita presenza femminile, altrettanto ricca di entusiasmo ma un po’ meno di esperienza su questi terreni.

Chiara in vista dell’ultimo torrione

L’accesso alla cresta, ben descritto nella relazione di Luca Enrico, è lungo e abbastanza complesso, ed è un maestoso tasso monumentale a introdurci al mondo di roccia che circonda il Monte Plu’. Il sentiero presto diventa traccia, dopodiché subentrano l’intuito e il senso della montagna dei più esperti.

Non parlerò di gradi e difficoltà, meglio descritti da Luca, ma di una cresta logica e bella che, tiro dopo tiro, corre via veloce come una giornata di primavera. Di una roccia buona e affidabile, che mette a proprio agio nonostante le ripetizioni sporadiche. Di un ambiente intatto e selvaggio, ma nello stesso tempo ospitale e ricco di presenze altrettanto curiose di noi, come lo stambecco femmina che a lungo, da un intaglio, ci ha osservati salire.

Ancora Chiara insieme ad Enrica Grandis

È stato bello, una volta usciti dalla via, fermarsi ad osservare i compagni percorrere a fil di cielo gli ultimi metri di cresta, sullo sfondo le montagne ancora imbiancate.

La discesa su Bracchiello, anziché su Chiampernotto, ha chiuso l’anello e la giornata. Anche se forse il vero viaggio, iniziato ai piedi del tasso monumentale, era già terminato una volta incontrate le prime persone, i bolli sul sentiero, un accenno di strada.

Per me, una salita sicuramente da ricordare, ma soprattutto un’esperienza che suggerisce come talvolta, in montagna come nella vita, valga davvero la pena cambiare approccio.

Da “so, e dunque posso andare“, a “sono curioso, e quindi voglio andare“.

 

Chiara

10 aprile 2021

foto Beppe Leyduan (https://camoscibianchi.wordpress.com/)

 

La Cresta Botto al Monte Plù

una salita d’altri tempi

Quando vado a ripetere certe salite desuete, cadute ormai nel dimenticatoio, cerco spesso di identificarmi nei primi salitori. In un viaggio a ritroso nel tempo provo ad immedesimarmi in quegli alpinisti che non molto dissimilmente da me risalirono gli stessi sentieri e le stesse rocce che oggi io sto percorrendo. Eppure tante cose sono cambiate, soprattutto per salite che hanno cento anni o poco meno. Un altro mondo, altri problemi, altri ritmi, eppure credo che la passione sia sempre immutata, che quella che ci spinge oggi sia identica a quella che spinse quei pionieri.

La voglia di evasione e di scoperta, di correre a fil di cielo su una cresta accidentata lasciando vagare libero lo sguardo sulla pianura, che poco importa se è cambiata con il suo intreccio di strade e lontane periferie. Mi chiedo come saranno tra cento anni le pareti e i boschi in cui sono ora immerso, probabilmente immutati e immutabili, e come saranno gli alpinisti, se qualcuno ancora salirà quassù. Ma forse sono le stesse domande che si posero gli alpinisti di cento anni fa, i primi salitori che resero immortale il loro nome legandolo per sempre a una via, a una parete, a un’ascensione, come in un’espressione artistica dal sapore naif: la creazione di un itinerario sulla tela dell’immaginazione.

Anche questa volta è stata la stessa cosa. La Cresta Botto al Monte Plù, un itinerario tanto bello quanto assolutamente ormai sconosciuto ai più ma che per un attimo, per un giorno, è stato fatto rivivere dalla nostra passione. Il versante meridionale del Plù è un labirinto di speroni, guglie e canali ma gli sguardi cadono ormai solo più sullo Sperone Grigio, forse perché bello e affusolato, splendente e abbacinante come i cristalli e i minerali che un tempo quassù si andavano cercando, tanto da offuscare ciò che gli sta intorno. Un vero peccato perché questa lunga cresta riserva scorci panoramici molto belli e pittoreschi e regala una progressione su roccia salda e con passaggi mai banali e sempre divertenti.

Bisogna saperla apprezzare nel suo insieme, la marcia di approccio e la discesa permettono di immergersi in un mondo che nulla ha da spartire con la civiltà che, poche centinaia di metri sotto, ha inglobato la montagna, che con supponenza ha pensato di poter imbrigliare e catalogare tutto. Quassù invece nulla muta, nel regno delle aquile che volteggiano incuranti del nostro affaccendarci e della nostra voglia di evadere dal virus dell’antropizzazione. Salendo prima il bosco, poi il canalone e in ultimo lo stretto canale, chiuso tra le pareti, ci si avvicina poco per volta, quasi per gradi, a questo mondo fuori dal tempo. Dall’ombra dell’incassata gorgia dirupata si sbuca sul solatio intaglio, da cui iniziano le prime rocce della cresta. Giungere all’attacco rappresenta sempre un momento particolare, le incertezze dell’avvicinamento svaniscono, si dissolvono nella luce del mattino, finalmente l’attrezzatura esce dallo zaino e si può iniziare a scalare.

Mario Gatto, Gino Revelli, Piero Cavallero e la signorina Paola Dutto. Questi i primi salitori. A Botto, suo malgrado, venne solamente intitolato l’itinerario, in sua memoria, dopo la caduta mortale sul Grand Cordonnier. Di coloro che legarono indissolubilmente il loro nome alla cresta si sa ben poco, solo Mario Gatto fu un alpinista molto attivo nelle Valli di Lanzo, dove compì diverse prime ascensioni, un esploratore. E per questo non è da escludere che fu proprio sua l’intuizione di scalare il versante meridionale del Plù, di vedere tra le pieghe del monte la possibile via di ascesa.

in otto a Monaviel, verso la Cresta

Assai singolare è che venga specificata, nella relazione, la parola “signorina” ma sicuramente, in quegli anni, la presenza femminile nelle cordate non doveva essere così consueta, a parte alcuni casi scritti in maniera indelebile sulle pagine della storia dell’alpinismo. Oggi invece siamo in otto a scalare qui e la presenza femminile è preponderante: ben cinque ragazze. Forse questa via non ne ha mai viste tante e sicuramente tutte insieme e forse non ha neanche mai visto una simile frequentazione in un colpo solo. Dopo la pubblicazione della relazione veniamo a sapere di ripetizioni negli anni ’60, nei ’70 e poi negli ’80, diluite nel tempo, da parte più che altro di estimatori di queste montagne. E c’è da chiedersi perché. La scalata infatti è bella e solare, divertente, appagante nel gesto e nello spirito.

La cresta inizia facile, un tiro di rocce frammiste ad erba, ma presto la musica cambia. La seconda lunghezza regala difficoltà di quinto grado per nulla generose. Bisogna muoversi delicatamente per poi afferrare in maniera decisa una bella lama. Oggi le scarpette, i friend e le leggere corde in nylon facilitano tutto, ma se si pensa all’attrezzatura di cento anni fa si può comprendere la bravura di quei primi salitori. Una successiva sezione più facile, ma sempre su roccia buona e divertente, permette di giungere a un secondo salto più ripido e poi ancora su, verso gli ultimi torrioni. Di nuovo un tratto verticale, di nuovo una lunghezza di quinto grado, o quasi, e poi per cresta si giunge al cospetto dell’ultimo pinnacolo, tanto triangolare da assomigliare a una piramide maya, schiacciata sulla scenografia del crestone discendente dalla vetta della montagna, ammantata di gialla e ancora rinsecchita erba olina.

La salita sta per terminare, un divertente camino permette di toccare la sommità del torrione finale. Come sempre, quasi con un po’ di rammarico, si realizza che un’altra avventura è terminata, dobbiamo solo più portarci sul crestone dove un rinsecchito albero fa da solitaria sentinella. Ci sediamo sull’erba, le foto di rito, il vento che stria di nubi le montagne del fondovalle, adesso bisogna solo scendere. La discesa è sempre parte integrante di ogni salita, le due cose sono indissolubilmente legate, e anche questa volta è così.

L’autore alla fine della via in compagnia di Enrica Fassone

Ci lasciamo scivolare sull’intricato tappeto di rododendri verso il Vallone del Crosiasse. Poi seguiamo il sentiero e la mulattiera, costruita con maestria sugli scoscesi fianchi della montagna, fino a Bracchiello. Da qui bisogna solo più raggiungere Chiampernotto ma questa volta la fortuna ci assiste e un provvidenziale passaggio in auto ci evita una ulteriore mezzora di marcia.

 

09/04/2021

Luca Enrico

 

 

La Cresta Botto al monte Plu

Una ricognizione suggestiva su una salita insolita nelle valli di Lanzo

Sono diverse e si sovrappongono le motivazioni che spronano a una salita in montagna: per alcuni è la passione di una vita, per altri è l’anelito della prestazione, o ancora uno sfogo o un desiderio di mettersi alla prova, qualcuno per assecondare il desiderio di altri, ma tutto in qualche modo si intreccia. Nel mio sentire è la curiosità a dominare su tutto. Non sono un’atleta né un’alpinista, solo un’amante della montagna, e sono curiosa. Tuttavia per frequentare la montagna devo comunque allenarmi, almeno un po’. Quel minimo accettabile e con quella certa costanza che consente di godersi una bella gita con gli sci o una piacevole scalata senza troppi affanni. La curiosità mi porta in luoghi incantevoli, a volte singolari. Ogni tanto capita un’occasione un po’ speciale, come questa, alla cresta Botto.

L’autrice con Diego Margiotta, il “Camisa”, all’uscita della via

Cresta Botto. Mai sentita nominare. Eppure scopro subito che lo sguardo si sarà posato inconsapevolmente su di lei centinaia di volte risalendo la valle di Lanzo in auto, all’altezza della diramazione tra la val d’Ala, a sinistra, e la val Grande che frequento da sempre. Avevo osservato la Cresta della Scuola camminando sul bellissimo sentiero del vallone del Crosiasse; sapevo vagamente dell’esistenza di uno Sperone Grigio sui contrafforti del Plu, ma non avevo mai fatto indagini. Poi ecco che due instancabili alpinisti e ricercatori di itinerari inediti o abbandonati, Luca e Matteo, propongono, a me e agli altri soci d’avventura, questa salita. Frequento Luca e Teo un po’ casualmente, visto il divario degli interessi in montagna, ma forse poi neanche tanto considerando che siamo da sempre villeggianti, come si dice, nella stessa amatissima valle. E così si è creata l’occasione.

Bene, dov’è, dove non è la cresta Botto, da dove e come si sale, e soprattutto: come si scende? Quest’ultima, quasi sempre, è la domanda più interessante.

Valentina Lauthier nell’avvicinamento

Non c’è molto di scritto, anzi proprio poco. Qualcosa su alcune pagine di “Palestre delle valli di Lanzo” di Gian Piero Motti (1974), che l’amico Beppe Leyduan mi invia prontamente. Non ho tutti quei bei ragguagli che, da scalatrice della domenica, normalmente mi interessano molto, devo pur sapere bene cosa vado a fare… ma via, non sono io a condurre, e i tre capicordata, Diego oltre ai due già citati, sapranno muoversi con sicurezza su una cresta definita da Motti “palestra”. Ci sono altre curiosità e mi intriga il fatto che tra i primi salitori, Gatto, Revelli, Cavallero, sia citata la signorina (sic) Paola Dutto. Interessante questa presenza di cui vorrei sapere di più. Se ha scalato la cresta Botto avrà fatto anche altro, interessante la sua presenza soprattutto dal punto di vista psicologico, sarà stata sicuramente molto coraggiosa per sfidare tutti i cliché dell’epoca; e interessante dal punto di vista storico in generale direi, considerando che la donna seconda di cordata ancora negli anni Sessanta, come ci racconta Reinhold Messner nel suo libro On Top Donne in Montagna (ma chissà quanto in effetti ancora oggi, nonostante tutto), veniva mostrata nelle foto a un pubblico desideroso di sensazionalismo, ma messa a volte in ridicolo in un ambiente alpinistico assai incline a pregiudizi vari. Una pennellata di storia, per una prassi, chiamiamola così, che esulerebbe dalla breve narrazione di una scalata, ma forse neanche tanto, e che sarebbe molto interessante da analizzare più attentamente. Vedremo.

Dunque una bella salita per cresta dalle difficoltà moderate, ma niente affatto banali (ovvero il “solito” IV–V interamente da proteggere, a parte tre vecchi chiodi), che pare nessuno abbia compiuto da molto tempo, alle pendici dell’isolato, ma in qualche modo, per noi domestico monte Plu.

Diego Margiotta, detto il “Camisa”

Insomma, via. Si decide e si va. Alla partenza il clima è ideale, anche tra di noi soci di avventura. Tre capicordata uomini, Luca, Teo, e Diego l’ormai celebre “Camisa”, e ben cinque donne, Vanessa con cui ho scalato anche su vie lunghe diverse volte, Valentina, Chiara e la mia giovane omonima, Enrica.  Siamo evidentemente ben presi, come si dice, anche se non ci conosciamo tutti reciprocamente, in cordata, intendo. L’aria è tersa e frizzante e siamo arrivati all’appuntamento in leggero anticipo. Con quella tipica sensazione di aspettativa un po’ sospesa scarichiamo il materiale dalle auto e ci incamminiamo di buon passo da Chiampernotto verso la splendida frazione Monaviel, e di lì a poco deviamo su una traccia che appare un po’ scomoda e ripida, ma è un eufemismo perché il “ripido” dell’avvicinamento deve ancora manifestarsi. Dopo un salto di roccia attrezzato con un cordone, devieremo a destra abbandonando il percorso per lo Sperone Grigio e saranno le belle e robuste (per fortuna) zolle erbose a cui ci aggrapperemo dopo poco a caratterizzare l’avvicinamento! Ci si appiglia qui e là, scalando sull’erba per infilarci poi in un canalone ancora più angusto, ma connotato da pietroni che si risalgono quasi come “gradini”. Su, su. A un tratto eccoci arrivati all’attacco! E’ qui? E come facciamo a sapere che è proprio qui? Non ottengo grandi risposte ma osservando bene anche a me alla fine pare evidente, in effetti: dove c’è l’intaglio! Ci riprendiamo dalla salita e ci attrezziamo. Ma ecco, come in tutte le avventure degne  di nota, il colpo  di scena: non ho preso le scarpette! Cerco, cerco, ma non è che ci sia tanto da cercare. Niente, non ci sono proprio. Si potrebbero azzardare alcune interpretazioni, sempre psicologiche, del fenomeno, tipo ascrivendo la dimenticanza a tutti i problemi che ho avuto negli ultimi due anni proprio a causa delle scarpette… questa è un’altra storia ancora, ma il fatto crudo è che le dannate scarpette non ci sono. Oh, cielo. Per dirla delicatamente.

Che fare. Potrei tornare indietro: magari poco agevole, ma la cosa si può fare tranquillamente; anche Chiara ha dei dubbi suoi. Ci guardiamo io e lei con aria un po’ così. Potremmo ripiegare insieme… ma no, è solo un flash, e abbandoniamo subito quest’idea rinunciataria, è evidente che siamo entrambe curiose e non ci va affatto di mollare. Vanessa protesta giustamente  e mi dice: “Ma no! Non vorrai perderti anche questa cresta!” (sottinteso, dopo i problemi che hai avuto). E no, infatti non voglio, e via, ci saranno un paio di passaggi di V, posso scalarli anche con le scarpe. Si spera, almeno. Guardo in su, intravedo già qualcosina su placca. Nel nostro bel gruppo c’è anche Valentina che ha ben altri problemi a calzare le scarpette! Ma in lei, che è un’atleta vera, immagino che gli stimoli dominanti siano la volontà di fare e di mettersi alla prova. E’ determinata, come sempre. La voce allegra e limpida dell’altra Enrica, anche lei molto decisa, echeggia tra gli speroni di roccia e allieta la compagnia. Si va.

Partenza. In ordine sparso.

Sì perché non si deve immaginare una progressione ben ordinata per cordate successive, ma piuttosto un assalto alla diligenza. Ok ragazzi il primo tiro è una passeggiata, ma un po’ di ordine suvvia. Mi fa ridere perché so che, anche se non è esplicito, è una manifestazione giocosa di quel tipico spirito competitivo tra primi di cordata per conquistare l’avanguardia. Ma no, figurati! Ma sì, invece, guarda che corsa! Io salgo con Diego e tutto procede speditamente. Così come per le altre due cordate, e ci assesteremo a breve in una progressione più ordinata come si conviene.

Enrica sul tiro di V…senza scarpette

Si scala! E la roccia è bella! La cresta si rivela a poco a poco con tutto il suo fascino. Qualche placca verticale, non proprio facile da scalare con le mie scarpe imprecise,  poi è il susseguirsi spettacolare di torrioni, di traversi facili ma esposti, di intagli un po’ meno facili in cui ci si deve calare, a regalarci sensazioni bellissime e appaganti. Ogni passo è una sorpresa. Ogni cosa è, davvero, illuminata. A un tratto volgo lo sguardo verso il cielo e vedo una grande aquila che vola neanche tanto in alto sulla verticale sopra le nostre teste. Uno stambecco femmina, che si può definire tranquillamente una stambecca senza far venire il mal di pancia a nessuno, occhieggia a destra sbucando di tanto in tanto sul filo dell’altra cresta e segue incuriosita i nostri movimenti.

Vanessa Cimolin, Matteo Enrico e Chiara Ravera

Che ambiente. A spezzare per un momento l’idillio sarà un appiglio che mi rimarrà in mano, anche se l’avevo tastato prima di afferrarlo. Faccio un breve volo senza conseguenze con la corda dall’alto, ma in montagna è così, lo sappiamo, e anche se la roccia appare molto bella è meglio mantenere la dovuta circospezione. Si progredisce e dopo  una varietà di scenari ci rendiamo conto che siamo già in alto, poi risaliamo una torretta, ci caliamo delicatamente su una sella e davanti a noi ecco che si staglia una bellissima piramide di roccia compatta. E’ davvero spettacolare, Vanessa e Chiara spiccano sulla cima, Diego di spalle con tutta l’attrezzatura e la sua immancabile ‘camisa’. Ma non è finita, dopo la cuspide della piramide si dovrà ancora superare un traverso e poi calarsi, non banalmente, sull’ultimo colletto da cui si risale il pendio erboso fino alla dorsale dove, finalmente, sostiamo. Da lì la vista sul tratto della cresta appena percorsa è, con un’altra angolazione, ugualmente grandiosa. E voltandomi dall’altra parte, verso nord, riconosco subito molto più in basso e sull’altra dorsale, quella che scende dal colle del Crosiasse, il sentiero che ho percorso ancora l’estate scorsa e che conduce a  Bracchiello. Non proprio a portata di mano, ma bene in ogni caso!

Panorama sul Plu: foto Beppe Leyduan (https://camoscibianchi.wordpress.com/)

Ci riposiamo e ci godiamo il momento, siamo felici della nostra scalata. Il cielo si vela leggermente, ora la dorsale del Plu è sferzata da qualche folata di vento, percepiamo tutti un po’ il freddo per la prima volta nel corso di una giornata che ci ha regalato una temperatura ideale e la grazia di un sole luminoso. Ora invece le sfumature della primavera ancora in divenire sono esaltate dalle tonalità grigie del cielo che si è fatto velato, in alto. Ma l’aria che spira intorno a noi  è  tersa,  cristallina per la brezza. Siamo vicini alle valli, ma così lontani. C’è una solitudine delle vette e una solitudine degli orizzonti e ancora quella dei confini ineluttabili. Il monte Plu ha un suo fascino solitario. Serpeggia sui nostri volti qualcosa che si potrebbe definire struggimento.

Ma è solo un attimo, ormai è giunta l’ora.

Da dove scendiamo?

Nel corso della salita avevo appurato che nessuno aveva in realtà un’idea precisa di questo particolare. Ma via è questo il succo dell’avventura, mica siamo qui per divertirci! Ma la verità è che ha il suo perché, ora, che l’avventura continui.  Motti nel suo testo indicava, per la discesa, il  canalone erboso che abbiamo appena risalito nel suo breve tratto terminale. Ma divallare da lì non pare bello a nessuno, l’imbuto, per quel che si può vedere, pare diventare una scarpata verticale, e sotto non sappiamo cosa ci aspetta. Si potrebbero risalire senza traccia 200 m di dislivello fino alla cima del Plu, poi con una lunga camminata raggiungere il colle D’Attia e da lì reperire il sentiero verso Ala di Stura. Ma nessuno ha voglia di inerpicarsi ancora, e la soluzione migliore pare quella di raggiungere il sentiero del Crosiasse laggiù in basso. E’ lunga eh, e si vede benissimo, ma l’importante è che si riesca a scendere senza troppi affanni.

Mah, insomma. La pendenza non è proprio così lieve e soprattutto, quanti rododendri. Dopo le prime solite, ripide zolle  erbose, ecco appunto davanti a noi un mare di rododendri belli prosperosi. Rododendro sì, ma in verticale, si intende! In mezzo a tutte quelle ramaglie il passo si fa incerto e faticoso, ma si vedono alcuni “scorrimenti”, probabilmente dovuti al passaggio di animali. Valentina e io adottiamo una tecnica raffinata: sedere a terra e via in scivolo! Quasi eccellente. Quasi. Di fatto risparmiamo un sacco di fatica e di inciampi e perdiamo quota velocemente. Siamo un po’ stanchi ormai, soprattutto per la monotonia della discesa sulle ramaglie.  Abbandoniamo infine le pendici del monte Plu  e oltrepassiamo, lungo il greto del torrente, una bella paretina di roccia dove Teo si sofferma e richiama la mia attenzione: guarda, che bella linea lì… che occhio! E sì, la linea è bella davvero.  Ci siamo quasi, finalmente… di là dal… torrente, tra gli alberi… so che c’è il sentiero. Sarà ancora una lunga passeggiata, la discesa fino al fondovalle, ma ormai siamo su un sentiero battuto. L’esplorazione è terminata, ma la soddisfazione ci accompagna. Abbiamo scalato un “piccolo” gioiello di cresta con qualche centinaia di metri di sviluppo. Grazie agli intrepidi organizzatori e alla loro mai sazia curiosità per le valli di Lanzo. E grazie al mio compagno di cordata e a tutta la compagnia della cresta!

Enrica

 

VAI ALLA RELAZIONE TECNICA: https://www.vallidilanzoinverticale.it/itinerari/arrampicata/cresta-botto-al-monte-plu-q-1990m/

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