Nell’illustrare le Valli di Lanzo in Verticale è impossibile non dedicare un capitolo a Gian Piero Motti. E’ stato il principale protagonista della scalata in queste valli, e soprattutto nella Valle Grande, a cavallo degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Di Motti si è scritto molto ed è stato anche realizzato un film documentario. Io voglio ricordarlo con un mio scritto a lui dedicato pubblicato come “postfazione” alla raccolta dei suoi scritti: I Falliti.
Ugo Manera
GIAN PIERO MOTTI
Sono passati molti anni dai fatti che mi accingo a ricordare, fatti legati a Gian Piero, alle avventure vissute insieme e alle nostre discussioni sull’alpinismo, ma il ricordo dell’amico non é sbiadito, anzi è più vivo che mai e spesso mi capita di pensare a lui. Tra le amicizie nate in montagna quella con Gian Piero è stata sicuramente la più importante e me ne rendo conto riscontrando che il mio affetto per lui non è diminuito malgrado il tempo trascorso dalla sua scomparsa. Gian Piero era molto sensibile, soggetto a grandi entusiasmi ma anche a momenti di grandi crisi esistenziali. Nella sua visione della vita, allietata da elevata capacità di cogliere gli aspetti poetici dalla natura, si inserivano stati periodici di pessimismo. Io ero invece un consumista delle cose che mi appagavano, indirizzato sempre all’azione, poco incline alla riflessione, teso caparbiamente a rincorrere ciò che mi dava soddisfazione anche a costo di enormi fatiche e sacrifici. Egli era animato dal desiderio dell’azione ma con l’esigenza di interrompere ogni tanto per rivolgersi alla meditazione. Io ero invece abbastanza insensibile a tutto fino a quando non riuscivo a raggiungere il mio obiettivo alpinistico: poi potevo anche distrarmi osservando il mondo che mi circondava ma solo per il tempo necessario a riacquistare le energie per la salita successiva.
G.P. Motti a Caprie
Malgrado la nostra diversità è stata una grande amicizia, non abbiamo mai avuto contrasti, neanche quando con sottile ironia sottolineava la mia esagerata foga nel praticare l’alpinismo, tutto si risolveva sempre con grandi risate. Ho subito anch’io il fascino della sua personalità ma non mi sento in diritto né di indagare profondamente su lui, né di cercare una spiegazione a quei fatti della sua vita che appaiono enigmatici e che hanno originato spesso critiche ed interpretazioni superficiali. Quando si auto isolava dall’ambiente dell’alpinismo io accettavo le sue scelte senza porre domande ne esprimere commenti; semplicemente aspettavo il suo ritorno.
Cercherò di raccontare fedelmente alcuni dei tanti fatti che mi hanno legato a Gian Piero e che sono tuttora vivi nella mia memoria.
Un sabato sera, verso la fine dell’agosto 1964, mi trovavo alla Muanda di Teleccio per trascorrervi la notte. Allora non esisteva il rifugio Pontesi e gli scalatori trovavano riparo nelle grange abbandonate; una di queste era stata adattata alla meglio con un po’ di paglia e qualche tavola di legno. Ero lì con un amico per salire la via Leonessa-Tron della parete ovest del Becco di Valsoera e, nel diroccato ricovero, vi erano con noi altri scalatori. Mentre eravamo intenti nei preparativi per la notte entrarono impetuosamente due ragazzi molto giovani; uno appariva del tutto normale, l’altro invece attirò subito la nostra attenzione: alto, capelli scuri ed occhiali, si capiva essere il capo della piccola spedizione. Parlò dopo aver dato uno sguardo frettoloso al ricovero ed all’umanità presente: ci disse che la loro meta era lo spigolo del Becco di Valsoera, la più difficile via esistente a quel tempo nel gruppo del Gran Paradiso.
G.P. Motti al Valsoera
Me lo ricordo molto disinvolto nell’effettuare i preparativi, dava l’impressione di essere determinato e molto concentrato nelle sue azioni tanto da prestare poca attenzione agli altri presenti.
Quel ragazzo mi incuriosì, provai per lui una simpatia istintiva ma il suo fare spavaldo e la sua giovane età me lo fecero apparire un po’ presuntuoso ad affrontare ascensioni di tale difficoltà.
Mi informai poi nell’ambiente alpinistico: appresi che si chiamava Gian Piero Motti, che aveva appena terminato la scuola di alpinismo G. Gervasutti, che era lanciatissimo nelle scalate difficili ed alcuni scalatori torinesi un po’ conservatori scuotevano la testa parlando di lui presagendo che la giovanile esuberanza potesse portare a drammatiche conseguenze.
Le curiosità destate in me da quel primo incontro con Gian Piero erano destinate ad essere presto soddisfatte; nella primavera successiva entrammo a fare parte dell’organico istruttori della scuola di alpinismo G. Gervasutti, io invitato come esterno per l’attività alpinistica svolta, Gian Piero promosso allievo istruttore per le brillanti attitudini dimostrate nei corsi. Altra opportunità di incontro ci venne offerta dall’ingresso di Motti nel Gruppo Alta Montagna dell’U.G.E.T., la seconda sezione torinese del C.A.I. Oggi il G.A.M. non esiste più ma allora era un gruppo importante che raccoglieva gli scalatori torinesi (e non solo) più attivi ed ebbe un ruolo importante nell’animare l’alpinismo ad alto livello.
Scuola Gerva fine anni 60 Motti terzo a sin in piedi
Per un po’ le nostre attività alpinistiche si svolsero parallele senza molti punti di incontro: io avevo una spiccata preferenza per l’alta montagna e le scalate su terreno misto (ghiaccio e roccia), Gian Piero invece prediligeva la roccia e non aveva né timori ne esitazioni nell’affrontare le scalate più difficili. Io, più condizionato dalla tradizione, ponevo come obiettivo primario il raggiungimento della vetta, egli collocava tale obiettivo in secondo piano facendolo precedere dal piacere per l’arrampicata elegante, i gesti e le intense sensazioni vissute in parete.
L’alpinismo torinese in quegli anni stava vivendo un momento di transizione; la spinta del gruppo di scalatori di origine proletaria che si era sostituito nell’immediato dopo guerra ai “borghesi”: Boccalatte, Gervasutti, Rivero, si stava esaurendo, i protagonisti avevano cessato l’attività o l’avevano ridotta notevolmente. Un giovane si stava affermando, con una serie impressionante di scalate: era Gianni Ribaldone. Ma purtroppo questa giovane promessa dell’alpinismo torinese morì in un incidente al canalone Gervasutti del Mont Blanc du Tacul durante un’uscita della scuola di alpinismo nel luglio 1966.
Alla scomparsa di Ribaldone, Motti, che aveva 20 anni, apparve a tutti il candidato a diventare il più rappresentativo tra gli scalatori torinesi della nuova generazione. Percorreva le montagne delle valli di Lanzo fin da ragazzino; nella Valle Grande, che diventò la “sua” valle, saliva ai colli, raggiungeva da solo le cime e scalava con le scarpette da ginnastica i massi del fondo valle. I suoi genitori conoscevano Giuseppe Dionisi, il fondatore della scuola di alpinismo G. Gervasutti, che, osservato nel ragazzo tanto entusiasmo per la montagna, lo avviò alla scuola. Si affermò subito come arrampicatore dotato ed estroso, con molta inventiva accompagnata da grande determinazione.
Impostò presto un suo tipo di attività indipendente ove appariva come primo attore. Arrampicava prevalentemente da primo di cordata ed i compagni fungevano quasi sempre da gregari. In quegli anni non mancarono salite con compagni alla pari come la ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey o nel tentativo alla est delle Grandes Jorasses (in entrambi i casi con Alessandro Gogna) ma furono eccezioni.
Se non cominciammo a scalare insieme fin dal nostro ingresso nell’organico istruttori della scuola, cominciammo però a discutere spesso, di alpinismo e di altri temi. Iniziò la nostra solida amicizia e lo convinsi ad iscriversi al G.E.A.T., gruppo molto attivo nella sezione di Torino del C.A.I., animato dall’encomiabile suo presidente: Eugenio Pocchiola. Sul bollettino di questa sottosezione, Gian Piero ebbe modo di pubblicare alcuni dei suoi primi scritti di montagna. Sempre nell’ambito del G.E.A.T. pubblicò le guide della Rocca Sbarua e delle Palestre d’arrampicata della Valli di Lanzo, piccoli capolavori del genere monografico.
Guida GEAT Palestre Valli di Lanzo
Gian Piero parlava volentieri con me, mi confidava i suoi progetti di vita e mi esternava le sue opinioni critiche sugli scalatori e sulle loro imprese. Aveva da poco ultimato il liceo e si avviava agli studi universitari nella facoltà di Lettere; vedeva nell’alpinismo uno degli interessi primari ed intendeva dedicare molto tempo alle scalate, ma senza diventare un professionista della montagna per non vedere limitata la propria libertà decisionale. Contava invece di intraprendere la carriera di insegnante, professione che, almeno ai suoi occhi, gli avrebbe garantito tempo libero per una intensa attività alpinistica.
Allora Gian Piero aveva una fidanzatina, Marina, e gli ottimistici suoi progetti coinvolgevano anche questa ragazza, compagna in una vita divisa equamente tra insegnamento, famiglia e montagna.
Con questi propositi Gian Piero si iscrisse alla facoltà di Lettere ma la sua esperienza universitaria durò poco; approdò in una università agitata dai movimenti che poi diedero vita al ’68, movimenti che non lo coinvolsero ma che anzi gli impedirono di dedicarsi agli studi come avrebbe voluto. Deluso nel suo ideale di studio abbandonò l’università ed i progetti di vita come insegnante. Non smise di studiare anzi studiò più di prima da autodidatta, tanto da acquisire un bagaglio culturale di eccezione.
Bec di Mea: via del Naso
La sua era una famiglia agiata ed egli non aveva problemi finanziari; quando abbandonò l’università si dedicò all’alpinismo quasi a tempo pieno ma questa situazione, apparentemente privilegiata, generò in lui molti dubbi e diede inizio a fasi cicliche di crisi ampiamente descritte nei suoi numerosi scritti.
Fu tra i primi giovani ad avere un’auto per spostarsi (dapprima una piccola FIAT 500 ma presto una più consona FIAT 850 coupè per poi passare alla elegante Lancia Fulvia coupè); possedeva sempre i materiali migliori e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene scegliendo buoni ristoranti per mangiare ed alberghi anziché campeggi per dormire. Spesso arrampicando assumeva movimenti e posizioni plastiche che gli erano naturali ma che a molti apparivano sfoggi esibizionistici. Se della cordata era il leader a volte dava l’impressione di essere brusco con i suoi secondi. Per il suo modo di vivere, per qualche atteggiamento esteriore (egli stesso si definisce superbo ed ambizioso) e per una buona dose di invidia da parte di chi inventò l’appellativo, venne chiamato “il Principe”.
Con Gian Piero gli osservatori superficiali hanno sempre sbagliato e non lo hanno mai capito. In montagna non era affatto spavaldo e, anche se determinato, era sempre prudente, sapeva valutare i propri limiti e non li superava. Non era né egocentrico né egoista, anzi era generoso ed altruista. Se vedendolo arrampicare si poteva pensare a qualche atteggiamento esibizionistico, in effetti poi rifuggiva le manifestazioni che potevano farlo apparire protagonista di fronte al pubblico. Certe sue rinunce o assenze improvvise, che furono interpretate dai più come manifestazioni di superbia o di superficialità, furono invece delle decisioni sofferte, frutto di riflessioni e tormenti interiori che lo portarono ad agire in modo diverso da come l’opinione comune e si sarebbe aspettata.
Gian Piero si lanciò giovanissimo su celebri vie di roccia delle Dolomiti e del Monte Bianco, e contemporaneamente iniziò a tracciare nuovi itinerari nei luoghi di arrampicata classici per i torinesi: Rocca Sbarua, gruppo Castello Provenzale, la parete dei Militi. Fu la comune passione per la scoperta che ci portò ad arrampicare insieme. Anch’io nel 1967 avevo iniziato a rivisitare le palestre di arrampicata con l’intento di tracciare nuove vie. Al Plu, in valle di Lanzo, ci incontrammo in mezzo al bosco diretti separatamente al medesimo obiettivo: una via diretta sullo sperone grigio. Senza nessun accordo preventivo ci trovammo spontaneamente ad operare insieme anziché in concorrenza e fu l’inizio di una lunga collaborazione alpinistica caratterizzata dalla totale assenza di contrasti.
Poi venne il 1968, non quello ricordato per le numerose contestazioni sociali ma il nostro ’68 alpinistico, denso di esaltanti realizzazioni. Cominciammo, gia durante l’inverno, con l’esplorazione del Bec di Mea in valle Grande di Lanzo: la sua amata valle. Lì Gian Piero era il padrone di casa, conosceva tutti gli angoli e, durante le pause nelle accanite lotte sulle pareti, mi raccontava dei suoi viaggi di fanciullo sognatore per sentieri e dirupi. Concludemmo con l’entusiasmante prima salita della Punta Castagneri sempre nella sua valle, magnificamente descritta da Gian Piero nel suo scritto: “anatomia di una prima”.
L’impresa della Punta Castagneri ebbe però per Gian Piero un risvolto negativo: nella discesa notturna dopo la scalata scivolò su una lingua di ghiaccio e si ferì abbastanza seriamente alle mani. Dovette interrompere l’attività per qualche mese, perse l’allenamento all’arrampicata e l’immobilità forzata lo portò ad un momento di crisi da lui stesso descritto nell’articolo steso dopo la sua scalata solitaria al Pilier Gervasutti del Mont Blanc du Tacul, nel luglio 1969. Proprio con la bella impresa del Tacul uscì, almeno transitoriamente, dal momento negativo.
Invernale al Pilier a 3 punte: Motti e Grassi al bivacco
Tra le belle realizzazioni del 1968 di Gian Piero c’è la prima ascensione della via “di Guglielmo” alla Torre Staccata del Becco di Valsoera. Proprio riguardo a questa via mi preme raccontare un piccolo fatto (tra i tanti) che dimostra come fosse radicato in lui il senso dell’amicizia. Nell’inverno successivo all’apertura della via io, con tre amici effettuai la prima salita invernale e Gian Piero, preoccupato dalla temperatura polare nella notte del nostro bivacco in parete, salì alla diga del Teleccio per chiedere al custode se aveva nostre notizie, alla risposta negativa si portò da solo fin sotto la parete nella speranza di scorgere qualche segno di vita. Non riuscì a vederci e ritornò a valle ma restò vigile in attesa del nostro ritorno.
Da allora i momenti di riflessione e di crisi si produssero in Gian Piero con una certa periodicità alternandosi a fasi di grande entusiasmo e di eccezionale vitalità. A volte sembrava che le conquiste che in me alimentavano ulteriormente la già esagerata voglia di scalare, in lui provocassero l’effetto opposto inducendolo spesso a sospendere l’azione per rivolgersi alla riflessione e all’analisi critica di se stesso e del mondo dell’alpinismo. Quando si fermava io aspettavo il suo ritorno senza commentate i suoi dubbi; troppa era l’amicizia che mi legava a lui per sentenziare. Semplicemente rispettavo le sue scelte di vita.
invernale al Pilier a 3 punte: Motti, Rava, Miller, Grassi
Era frequente trovare descritti nei suoi scritti e articoli di allora i suoi momenti di crisi nella condizione di chi dalla crisi ne è uscito dando risposte convincenti ai propri dubbi. Questo passaggio lo si trova ripetuto più volte in periodi diversi a prova del fatto che la condizione di serenità non trovava un consolidamento stabile.
Nel più noto dei suoi scritti: “i falliti”, apparso nel settembre 1972 sulla Rivista Mensile del C.A.I., Gian Piero ci raccontò di una sua profonda crisi vista con gli occhi di chi faticosamente aveva raggiunto la verità. I dubbi che lo tormentavano non li rivolse solo a se stesso ma li estese a tutto il mondo dell’alpinismo e ciò diede origine allora ad un acceso dibattito ed a qualche accenno di polemica, sopratutto da parte di chi credette di sentirsi chiamato in causa.
G.P. Motti al Caporal
A sentirsi toccati dall’articolo furono alcuni esponenti dell’alpinismo di origine proletaria che caratterizzò il dopo Gervasutti a Torino. Il loro era un alpinismo positivo senza dubbi, vissuto anche come valvola di sfogo nella difficile vita del dopoguerra. Credendo di essere stati inclusi tra i falliti di Gian Piero manifestarono nei suoi confronti un certo risentimento. Scrive 24 anni dopo Andrea Mellano a commento di una riedizione dell’articolo in oggetto: “…Allora fui tra i contestatori. Se sulle tesi di Gian Piero sulla arrampicata come esercizio ludico fine a se stesso ci trovavamo d’accordo, sulle riflessioni espresse in forma apodittica le nostre opinioni non potevano essere che diverse. Quelli della mia generazione, usciti giovanissimi dal periodo bellico e che avevano vissuto i duri ma esaltanti anni della ricostruzione, non si riconoscevano nel quadro generale dei falliti descritto da Gian Piero. …..”
Quegli alpinisti scorgevano erroneamente in Motti, scalatore quasi a tempo pieno, un ritorno all’alpinismo borghese ed elitario e reagirono criticando le sue tesi. A mio avviso non capirono molto di Gian Piero e soprattutto non afferrarono la sua nuova interpretazione culturale dell’alpinismo rivolta ad esaltare i grandi orizzonti offerti da questa attività, ma anche a sottolineare il rischio di emarginazione corsi da chi in essa si identificava totalmente perdendo di vista altri aspetti importanti della vita.
Motti al Campanile Basso
Gian Piero si colloca tra gli intellettuali dell’alpinismo ma è diverso da altri che lo hanno preceduto. Dalla letteratura alpinistica apprendiamo che gli intellettuali che praticarono questa attività trovavano in genere nell’alpinismo un rifugio dai conflitti interiori riguardanti altri aspetti dell’esistenza. Motti invece rovesciò sull’alpinismo, inteso come attività fondamentale della vita, tutti gli interrogativi del suo intelletto. Quello di cui sono certo è che le sue riflessioni non erano indirizzate agli scalatori “proletari” che lo avevano preceduto ma a figure più vicine a lui, forse a suoi stessi compagni di cordata e comunque a personaggi che scorgevano nell’alpinismo l’unica realizzazione importante, insoddisfatti da tutti gli altri aspetti della loro vita.
Gian Piero accennava nell’articolo ad un lavoro che gli dava soddisfazione e gli lasciava del tempo libero; si trattava di due rappresentanze nel campo dei materiali ed indumenti per l’alpinismo. Mantenne tale attività per un paio di anni circa e come sempre la svolse in modo esemplare. Mi capitò di accompagnarlo in qualche negozio sportivo ed ebbi modo di costatare quanto fossero apprezzate le sue visite, era prodigo di indicazioni utili e molti si affidavano a suoi consigli per migliorare l’allestimento dei negozi.
Montbrison Tète d’ Aval
Come si evince anche da “i falliti” il periodo a cavallo del 1972 è stato probabilmente uno dei più sereni e creativi della vita di Gian Piero; quell’anno ci scatenammo a scalare le pareti delle Prealpi francesi che nessun scalatore italiano aveva ancora esplorato. Fu per noi una felice scoperta che pubblicizzammo con numerosi scritti tanto che in breve tempo molti altri seguirono le nostre tracce.
Nell’autunno dello stesso anno scoprimmo il “Caporal” e la Valle dell’Orco e grazie allo spirito innovatore di Gian Piero si diede inizio all’era, da molti mitizzata, del “Nuovo Mattino” che tanto ha fatto scrivere e parlare negli anni a seguire.
Gian Piero compiva salite anche durante la settimana, reclutando studenti che potevano disporre di tempo libero. Dopo qualche scalata però sentiva la necessità di sospendere e di allontanarsi dalla montagna. Per le vacanze estive avevamo grandi progetti ed iniziammo bene con la parete ovest delle Petites Jorasses ma all’appuntamento successivo, due giorni dopo l’ascensione, egli si presentò vestito elegante, con la nuova fidanzata ed i genitori di lei, in partenza per un viaggio turistico in Europa. (La storia con Marina, ricordata in alcuni suoi scritti, era da tempo finita). Mi pregò di scusarlo dichiarandomi che lui per il momento di montagna era sazio e sentiva necessaria una interruzione. Lo conoscevo bene e non rimasi troppo contrariato, mi diedi da fare per trovare un altro compagno. Fui invece molto sorpreso nel vedere Gian Piero così inserito in un quadro di famiglia ma quella condizione non durò molto.
Alla ricerca delle Antiche Sere
Nella prima metà degli anni ’70 per Motti non ci fu solo l’alpinismo attivo: le sue attività professionali e culturali furono almeno di pari importanza. Fu tra i fondatori e principali collaboratori della Rivista della Montagna, collaborò a lungo con De Agostini per l’Enciclopedia della Montagna, collaborazione che culminò con l’edizione della migliore Storia dell’Alpinismo mai pubblicata. Contemporaneamente iniziò il rapporto con la Fila di Biella, stringendo legami di profonda amicizia con Enrico Frachey che ne era l’amministratore delegato, e con Giorgio Bertone la forte guida valsesiana, consulente tecnico dell’azienda tessile. Gli impegni divennero tali che lasciò le rappresentanze di articoli sportivi. Malgrado ciò riuscì ancora a scrivere testi tecnici divulgativi di grande qualità, come le esemplari dispense per gli allievi della scuola G. Gervasutti.
Venne invitato a far parte del Groupe de Haute Montagne francese, il celebre G.H.M, ed entrò in contatto con molti dei più celebri scalatori dell’epoca e molto discutemmo delle loro imprese. Da buon storico era sempre obiettivo nel riconoscere l’effettivo valore degli scalatori di punta di qualsiasi tendenza essi fossero ma il suo favore era orientato maggiormente alle figure anticonformiste ed in misura minore verso quelli che rappresentavano una linea di continuità con il filone eroico romantico della tradizione italo-germanica. Il suo interesse era rivolto perciò agli scalatori californiani, a quelli del Regno Unito e ad alcune figure dell’alpinismo francese, primo fra tutti René Desmaison. Una particolare attenzione rivoleva poi agli idealisti puri come Gaston Rebuffat del quale divenne ottimo amico.
Motti alla Parete Nera di Caprie
Come ho già accennato, operando con la FILA ebbe modo di frequentare Giorgio Bertone, i due si erano conosciuti nella scuola Gervasutti, Giorgio nella veste di istruttore (prima di diventare guida) e Gian Piero come allievo. Dopo l’incontro in FILA effettuarono insieme alcune difficili scalate come lo spigolo degli scoiattoli alla Cima Ovest di Lavaredo e in Giorgio nacque una stima profonda per Gian Piero sia come scalatore che come persona. Quando Bertone, con Renzino Cosson, compì il giro di arrampicate negli Stati Uniti culminato con la prima salita italiana alla via del Naso al Capitan, affidò a Gian Piero l’onere di allestire una conferenza che risultò molto interessante e che diede risposta a molte delle nostre curiosità sull’alpinismo americano. Dietro alla voce Giorgio, che commentava le immagini, era chiara la regia di Gian Piero nell’interpretazione dell’arrampicata californiana.
Sembrava che Gian Piero avesse raggiunto il proprio equilibrio: successo nelle attività professionali, stima da parte di tutti e attività alpinistica ad alto livello malgrado qualche interruzione. Quando si parlava di lui in sua assenza qualche volta emergeva nei suoi confronti una traccia di invidia da parte di chi doveva strappare con i denti il tempo per le scalate ad un lavoro poco gratificante.
Poi ci fu la sua scomparsa a Ceresole Reale nel 1975. Se ci penso mi compare ancora davanti agli occhi la sua Mercedes abbandonata in una curva sul bordo della strada. Seguirono cinque giorni di inutile ricerca con decine e decine di amici e sconosciuti accorsi da ogni dove, sparsi a cercare tra la valle dell’Orco e la Val Grande di Lanzo. Nulla, era sparito. Ogni tanto ritornavo a guardare la macchina abbandonata quasi per interrogarla, per cercare qualche ispirazione. Avevamo perso ogni speranza di ritrovarlo in vita poi al quinto giorno, mentre mi accingevo a salire con Bertone sull’elicottero per l’ennesimo giro di perlustrazione la notizia: Gian Piero era ricomparso a Breno il “suo” villaggio in valle Grande, stremato ma vivo. Tutti tirarono un grande sospiro di sollievo. L’angoscia svanì come per incanto ma presto cominciarono gli interrogativi: cosa era successo? Dove era stato? Perché era scomparso?
Motti in Vercors: Paroi de Glandasse 1973
Queste domande non ebbero mai risposta. Ho sempre rispettato la riservatezza del mio amico e non gli ho mai rivolto alcuna domanda su quell’avvenimento né allora né anni dopo in un periodo di confidenza tra di noi, quando ritornò ad arrampicare con me accompagnato dai suoi giovani amici-discepoli.
Altri invece azzardarono delle risposte, avanzarono insinuazioni, espressero critiche. Gian Piero ne uscì profondamente amareggiato; in una lettera toccante che mi scrisse circa cinque anni dopo disse: <<…..Discutere, spiegare, ribattere, non serve a nulla. Così già nel giugno del ’75 dovetti tacere in silenzio e subire con tanta amarezza insinuazioni, calunnie, cattiverie di ogni sorta. E poi via di seguito. Mi consola una cosa; che quando un giorno apparirà la verità (ed apparirà) sarà la sua forza a tappare la bocca a tutti. ……>>.
Parete Nera: G.P. Motti sulla via Omega
La verità cui si riferiva Gian Piero non è mai apparsa anche se nel 1981, di ritorno da Biella, dove assieme eravamo stati a trovare Enrico Frachey a concordare l’equipaggiamento per la mia spedizione al Changabang, si spinse oltre le sue confidenze abituali e mi parlò di esplorazioni che vanno oltre il nostro mondo, di buchi neri, di possibilità di ricerche oltre i limiti della vita. Parlando così accennò alla sua scomparsa del 1975. Concluse che quello era l’inizio di un discorso che un giorno avrebbe ripreso con me. Io ascoltai senza fare domande ma non avemmo più modo di riprenderlo.
Anche se non lo dimostrava Gian Piero era estremamente sensibile alle critiche; dopo la vicenda della sua scomparsa patì molto i giudizi un po’ maliziosi di alpinisti che egli considerava amici, ne uscì amareggiato e si propose di allontanarsi dal quel mondo che era stato così importante per lui. Una sera a casa sua dopo aver parlato di musica, di uomini e di scalate mi disse di aver chiuso con l’alpinismo e regalò a Claudio Sant’Unione e a me il suo materiale d’arrampicata. Usai per un po’ il suo martello Chuinard che tanti chiodi aveva piantato poi trovai migliore collocazione tra i materiali tecnici del Museo della Montagna allora in allestimento.
Motti con Giorgio Bertone e Alberto Rosso: 1975 Rivista della Montagna
Un giorno incontrai Gaston Rebuffat e parlammo di Gian Piero, il celebre scalatore francese mi disse che era preoccupato e dispiaciuto per una lettera del nostro amico nella quale Gian Piero gli scriveva che avrebbe distrutto tutte le sue fotografie di montagna. Per Gaston, grande idealista della montagna, era questa una decisione grave che lo rattristava molto.
In realtà Gian Piero non fu del tutto coerente nell’attuare il suo proposito di allontanarsi dall’alpinismo; per un po’ si isolò effettivamente e lasciò anche gli impegni di lavoro che da quel mondo traevano origine ma poi poco alla volta ritornò. Riprese a frequentare alcuni dei suoi amici, ricominciò ad arrampicare ed a scrivere di montagna. Senza neanche volerlo ritornò ad essere un punto di riferimento per molti giovani scalatori emergenti.
Collaborò con entusiasmo con Roberto Bianco, Corradino Rabbi e me a realizzare il rivoluzionario numero di Scandere 1979 (annuario della Sezione CAI Torino) e, stipati sul suo fuori strada, girammo Piemonte e Lombardia a tenere conferenze con proiezioni per diffondere la pubblicazione e rientrare delle spese. Il bilancio si chiuse in utile e con il surplus festeggiammo noi quattro con una grandiosa cena in un ristorante di lusso.
Un bellissimo ricordo accompagna il periodo seguente alla mia spedizione al Changabang nel 1981. Gian Piero era sempre circondato da un gruppo di giovani amici che lo seguivano ed ammiravano come un maestro. Ricordo una sera ritornando a casa sua dopo una cena, trovammo una delle ragazze del suo gruppo seduta sui gradini del portone; era lì da molto tempo ad attendere Gian Piero, salì con noi poi, mentre i nostri discorsi spaziavano su vari temi, stette a lungo, seduta sul tappeto, a seguire in silenzio ammaliata dal “Principe”.
Motti versione figlio dei fiori
Nell’ inverno e nella primavera che seguirono portammo spesso questi ragazzi ad arrampicare, erano alle prime armi e Gian Piero quasi sempre affidava alla mia cordata le ragazze del gruppo.
Continuammo a sentirci ed a vederci fino alla sua morte nel giugno 1983. Io lo informavo delle mie salite, commentavamo gli avvenimenti alpinistici ed ogni tanto arrampicavamo insieme a Caprie ed in altri luoghi a bassa quota. Quando mi trovavo a scalare nel vallone di Sea in Valle Grande di Lanzo passavo sempre dalla sua casa di Breno e se lui c’era si beveva un bicchiere di vino, si parlava e spettegolava del mondo alpinistico: a volte scherzosamente altre in modo molto serio. Tutto questo fino a pochi giorni prima della sua morte.
Un giorno ero al lavoro nel mio ufficio quando al telefono un amico, con voce rotta dai singhiozzi, mi comunicò che Gian Piero si era tolta la vita. Lo aveva fatto lontano dai luoghi abitati, lungo una sperduta stradina della valle di Lanzo.
Alla triste notizia il mio primo sentimento fu di dolore poi provai sorpresa ed incredulità: per me gli stati d’animo alterni di Gian Piero non erano una sorpresa e pur avendolo visto poco tempo prima, non mi ero reso conto della drammatica decisione che stava maturando in lui.
Quanto ho scritto è solo una parte di ciò che è stato il personaggio, altre cose mi vengono in mente anche se non sarei comunque in grado di spiegare gli aspetti più misteriosi che avvolgono la sua figura.
Ugo Manera