Sono passati ben 26 anni, sembra strano eppure è proprio così. Scalammo qui nel lontano ’94 e di per sé non è nemmeno tanto strano, a volte gli anni passano e in un dato posto non ci si ritorna più, magari perché non è risultato di nostro gradimento o perché è scomodo e lontano o magari perché ci è venuto a noia e proprio non ne possiamo più di rifare sempre gli stessi tiri. Ma certo non è il caso del Petit Verdon, almeno non per me e mio fratello.
E’ praticamente a venti minuti dalla nostra casa di Cantoira, senza spostare l’auto, altrimenti in dieci minuti ci si arriva, i tiri sono belli, così come anche il posto, e certo le gradazioni apparentemente basse bastonano a dovere, secondo il consueto standard degli anni ottanta e dei primi novanta. Non si può certo dire che l’arrampicata qui sia scontata e banale, priva di interesse.
Allora proprio non comprendo come mai sia potuto passare così tanto tempo. Eppure è proprio così e forse non fosse stato per il lavoro fatto per redigere la nuova guida della Valle manco ci saremmo tornati. Invece, complice anche il lavoro di risistemazione operato in questo settore dal coautore Marco, ci è venuta proprio la voglia di andare a rivisitarlo. Ed è stata una riscoperta molto piacevole, inoltre, inserito nel comprensorio che vede già il Ciaparat in ordine e il progetto di rivisitare il Cimitero delle Felci, risulta proprio un bel settore, comodo e con tiri che sono dei piccoli capolavori.
Certo che dal ’94 sono passati davvero tanti anni, all’epoca eravamo un po’ all’inizio delle nostre scalate e il Verdon, quello vero, manco lo avevamo ancora visto. Forse ne avevamo sentito parlare ma era relegato nella mitologia di quei luoghi lontani ed irraggiungibili, assolutamente inavvicinabili. E poi quando finalmente ci siamo andati, godendo del sole e del calcare provenzale, probabilmente il nostrano Petit era scivolato sul fondo della memoria e i ricordi di quel pomeriggio relegati in un cassetto.
Ma si sa, più passano gli anni e più si dice che i ricordi antichi riaffiorano facendosi più vividi, qualcuno associa la cosa alla vecchiaia ma non saprei nemmeno. Forse semplicemente, come rovistando in un cassetto chiuso da tanto tempo, salta sempre fuori qualcosa di dimenticato ma interessante.
Arrivando all’attacco della falesia mi è così tornato in mente qual pomeriggio, perché di pomeriggio si trattava. Eravamo andati in tre, io, mio fratello e il nostro amico Paolo. Era una di quelle giornate di agosto un po’ grigie per l’afa, umida ed appiccicaticcia, ma decidemmo comunque di andare. Ricordo che “trovammo lungo” il giusto, già sul “facile” diedro “Che patela” dovemmo ingegnarci a ricorrere a tutta quella serie di astuzie che probabilmente in seguito ci sono poi venute utili per superare altre pareti molto meno “petit”.
Non paghi ci spostammo sulla cengia a destra e attaccammo la via “Polo”. Una pancia a buchi su cui volle cimentarsi Paolo. Abbiamo ripercorso questo monotiro e guardando in sù mi sono venuti perfettamente alla mente quei lunghi minuti in cui il nostro amico saliva. E’ come avessi rivissuto le sensazioni di quegli istanti di cui ricordo la corda che si muoveva piano, oltre la pancia di roccia a fil di cielo, con quella vaga apprensione a pensare Paolo proiettato nell’ignoto. Poi un grido, ci appiattimmo contro la parete e lo vedemmo cadere con in mano un bel pezzo di roccia. Un bel volo ma senza alcuna conseguenza. Poi salimmo pure noi la via e ce ne tornammo a casa. Non credo avessimo fatto chissà quanti tiri però di sicuro non rientrammo con la sensazione di aver fatto nulla!
26 anni dopo devo dire che non è che abbia trovato quei tiri proprio così facili, anzi. Però è stata una bella giornata, questa volta di maggio, col sole ma ventilata. Tra 26 anni non so se potrò più tornarci, magari si ma non è detto, quindi a questo giro vorrei far passare meno tempo per la prossima visita!
Intanto andate anche voi, perché merita!
Luca Enrico