di Ugo Manera
Il prossimo anno (2021) ricorrono i 30 anni dalla morte di Gian Carlo Grassi avvenuta il primo aprile 1991 in un banale incidente al Monte Bove. E’ stato un grande personaggio nel mondo dell’alpinismo, da molto tempo si parla di pubblicare un libro biografico che lo illustri e ricordi, ma l’opera non sembra ancora in dirittura di arrivo. Egli è stato protagonista importante dell’alpinismo e della scalata nelle Valli di Lanzo e mi sembra doveroso tratteggiarne la figura in Valli di Lanzo in Verticale.
Gian Carlo Grassi
Ricordare un personaggio scomparso non è semplice, vari sentimenti si incrociano e spesso si scivola, magari involontariamente, nella celebrazione retorica elencando enfaticamente meriti e qualità di chi non c’è più. Terribile poi io trovo il modo, abbastanza in uso, di rivolgersi in prima persona con discorso diretto a chi è scomparso.
Considero però doveroso ed utile ricordare e diffondere la conoscenza delle persone che hanno fatto la storia delle attività che ci interessano ma credo lo si debba fare ricostruendo e raccontando i fatti nel modo più veritiero possibile evidenziando in modo non celebrativo, qualità e successi, e senza tacere gli insuccessi.
Gian Carlo è stato un grande personaggio dell’alpinismo della seconda metà del ‘900 e non solo a livello regionale o nazionale ma in senso assoluto, molto più grande ed importante di come emerge dai documenti storici dell’alpinismo di quegli anni. Il nome di Grassi ci fa venire in mente l’inventore dei più fantasiosi itinerari su cascate di ghiaccio e coloirs fantasmi nei luoghi più remoti, il salitore delle paurose seraccate di ghiaccio, l’instancabile ricercatore di nuovi problemi ovunque esisteva un pezzo di roccia inesplorato, scopritore tra i primi, della pari dignità tra tutte le avventure di scalata, dai massi della valle di Susa, alle rocce della Valle dell’Orco e del vallone di Sea, fino sulle più lontane pareti del Monte Bianco.
Io più che quel personaggio noto voglio raccontare, attraverso i miei ricordi, il Grassi più lontano, quello degli inizi ed il suo passaggio dal timido Calimero al Maestro, apprezzato e seguito dai giovani suoi discepoli del dopo 1972.
Prima di immergermi nei ricordi voglio evidenziare un aspetto del personaggio Grassi: ho conosciuto innumerevoli scalatori, celebri e meno celebri, di varie generazioni, ma non ricordo di aver rilevato in nessuno una passione così grande ed incondizionata per l’alpinismo e la montagna come in Gian Carlo. Un amore totale e sereno, sempre positivo, in lui non traspare mai una visione drammatica anche nelle situazioni più estreme, egli vive l’avventura alpina alla Rebuffat, sempre positiva, lontana dagli aspetti a volte tragici che traspaiono dai racconti di Bonatti ed a volte anche di Messner.
Era il 1963 e mi trovavo al rifugio Bozzano per salire il Corno Stella, arrivò un amico: Ezio Comba in compagnia di un ragazzo molto giovane, sembrava un bambino. Era incantato dalla cerchia di montagne che ci circondava, Ezio ce lo presentò come: Gian Carlo, parlò pochissimo e nelle sue azioni traspariva una grande timidezza, mi è rimasto impresso un particolare: non aveva con sé null’altro da mangiare che una scatola di latta di minestrone pronto. Cosi conobbi Gian Carlo Grassi.
Quale era l’ambiente alpinistico Torinese di quegli anni? Stava esaurendosi la spinta del gruppo che aveva caratterizzato il dopo Gervasutti, a differenza dei protagonisti dell’alpinismo di punta dell’ante guerra, espressi in massima parte dalla borghesia illuminata e colta, questi giovani, disinibiti e determinati, provenivano prevalentemente dal mondo proletario dell’officina, tra di essi emersero: Piero Fornelli, Corradino Rabbi, Guido Rossa, Andrea Mellano, Franco Ribetti. Un giovanissimo nuovo protagonista stava emergendo con una bella serie di imprese: Gianni Ribaldone, ma cadde con due allievi della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul nel 1966
Attraverso la “Gerva.” arrivarono i protagonisti degli anni a seguire: nel 1965 venni invitato come istruttore nella scuola, contemporaneamente entrò nell’organico istruttori Gian Piero Motti, proveniente dai corsi di alpinismo, superati in modo brillante. Motti era molto determinato e subito affrontò, in modo che ad alcuni parve spavaldo, scalate di grande difficoltà. Egli proveniva da una famiglia benestante, aveva tempo per allenarsi, il suo materiale di scalata era sempre della migliore qualità e tra i giovanissimi fu il primo ad avere un’auto propria. Allora era ancora in uso il coniare dei sopranomi che derivavano dal modo di presentarsi o da impressioni caratteriali, così a Gian Piero divenne: il “Principe”.
Grassi comparve nella scuola come allievo e nel 1968 entrò nell’organico istruttori. Non vi rimase per molto, il clima di ordine e disciplina voluto da Giuseppe Dionisi si scontrava con il suo desiderio di sfuggire proprio a quei vincoli. Allora era molto timido e non si imponeva all’attenzione, era chiara ed evidente in lui una enorme passione per l’alpinismo, avrebbe voluto dedicare tutto il suo tempo alla scalata invece era costretto ad un lavoro che odiava e di questo si lamentava spesso, non partecipava molto alle animate discussioni sull’etica e sugli orizzonti dell’alpinismo, allora in voga tra di noi, animate spesso dai temi suggeriti da Motti. Questo suo atteggiamento da pulcino un po’ sfigato gli valse da parte di qualcheduno (non ricordo più chi) l’appellativo di Calimero: personaggio reso celebre della pubblicità di un detersivo, perseguitato dalla sfortuna.
Motti aveva necessità di compagni che lo seguissero nella rincorsa delle tante idee che aveva in testa, cosi presto coinvolse e trascinò Gian Carlo nella realizzazione dei suoi progetti; si formò la cordata Principe – Calimero e per un po’ la collaborazione prese l’aspetto che si evince dai sopranomi: Gian Piero era esuberante nell’arrampicata, amava guidare la danza e poco spazio lasciava al compagno per esprimersi da capo cordata.
Malgrado qualche episodio sfortunato, come la frattura di una gamba nel tentativo di applicare il metodo De Francesch nella chiodatura a “pressione”, l’attività di Gian Carlo decollò e divenne cospicua, nell’inverno ’68-‘69 effettuammo insieme un paio di prime invernali con qualche incidente che non aiutava a scollargli di dosso l’appellativo di Calimero: una notte partimmo da Crissolo, egli aveva degli sci di fortuna e non era assolutamente capace a sciare, dopo meno di un’ora i suoi attacchi si sfasciarono ed io dovetti applicare tutta la mia abilità di meccanico per una riparazione di fortuna che gli consenti di arrivare al rifugio sotto la Punta Udine alle 2 di notte.
Nell’estate successiva salimmo insieme il Pilier Gervasutti al Tacul, al ritorno era stremato ma due giorni dopo, attingendo energie non so da dove, partiva per lo sperone Walker alle Grandes Jorasses.
Proprio la sera dopo il Pilier Gervasutti ci trovammo in buona compagnia in una tenda al campeggio Grandes Jorasses; oltre a noi due vi erano: Guido Machetto, Gianni Calcagno, Paolo Armando, Guido, che doveva avere poi un ruolo importante nel futuro di Gian Carlo, voleva convincere il nostro a seguirlo in una spedizione al K6 in Karacoram organizzata da una sezione CAI dell’Italia Centrale, per vincere le sue titubanze gli diceva: << Tu vieni con me a conoscere gli organizzatori, non devi però presentarti come Calimero, nascondendoti sotto il tavolo per la timidezza, devi dire con il petto in fuori, e in modo aggressivo, io sono Gian Carlo Grassi, campione dell’alpinismo torinese ed ho scalato questo, questo e quest’altro.>>. Il progetto, almeno per Gian Carlo, non ebbe poi seguito.
All’inizio del 1972 gli fu diagnosticata una malattia polmonare, venne ricoverato in sanatorio e vi rimase per oltre due mesi, andavamo a trovarlo ed eravamo preoccupati molto per lui, non si perse d’animo però e continuò a fare progetti, quando uscì aveva maturato il diritto ad un sussidio di 60000 lire al mese per 6 mesi, fu la svolta della sua vita, smise di lavorare e si dedicò alla montagna a tempo pieno. Guido Machetto, guida e maestro di sci, gli procurò un lavoro stagionale agli impianti da sci a Limone Piemonte, si iscrisse al corso guide ed avuto il brevetto cominciò a cercare clienti da portare in montagna. Per facilitarsi il compito si stabilì a Courmayeur nella stagione estiva. Abitava in un buco che aveva trovato a poco prezzo. Una notte qualcuno male intenzionato, in sua assenza, gli rubò tutto il materiale alpinistico; non aveva soldi per rifarsi l’attrezzatura e noi amici raccogliemmo tutto quello che gli serviva per non perdere la sua ancora incerta stagione di lavoro.
Conobbe dei francesi e li portò a scoprire la Valle dell’Orco, con essi si istaurò un legame di amicizia, erano dei viticultori e Gian Carlo, nella stagione della vendemmia andò a lavorare per loro per alcuni anni, in una di queste spedizioni conobbe la ragazza che divenne sua moglie.
Quando Gian Carlo usci dal Sanatorio qualche cosa era cambiato, anche nei rapporti con gli amici di antica data, era probabilmente maturata in lui la necessità di una maggiore indipendenza decisionale e di sentirsi di più protagonista in prima persona. Pur mantenendo i legami che aveva con me, Gian Piero ed altri del vecchio gruppo, poco a poco si creò un nuovo cerchio di amici, in prevalenza giovani emergenti che presto individuarono in lui il loro punto di riferimento. Tra questi ragazzi, portati ad andare contro corrente e con qualche tendenza trasgressiva, Grassi divenne il “Maestro”. Tramontava così l’era Calimero.
Il più rappresentativo dei “discepoli” del “Maestro” fu Danilo Galante, anche lui allievo della Gerva, scalatore forte e determinato, uno dei trascinatori del nuovo gruppo entro al quale divenne: il ”Mago”. Gian Carlo era portato a legarsi di amicizia profonda con i compagni di scalata con i quali entrava in sintonia, l’amicizia con Danilo fu molto forte ma venne stroncata presto, nel 1975 quando, in cima alla Chartreuse, dopo una scalata, sorpresi dalla notte e da una bufera di neve, Galante morì di sfinimento malgrado l’assistenza prodigatagli da Gian Carlo.
Eravamo tutti amici e scalavamo insieme ma tra il nuovo gruppo di Gian Carlo e noi più antichi sorse una forma di benevola competizione così quando Gian Piero ed io scoprimmo una parete che rappresentava un nuovo orizzonte e che io battezzai Caporal, Gian Carlo, subito ne trovò un’altra poco discosta e, quasi a rivendicare un titolo di supremazia, la chiamo: Sergent.
L’affermazione di Grassi come professionista dell’alpinismo proseguì tra molte difficoltà ma sorretta sempre da grande volontà ed infinita passione, il suo nome era ormai noto e la sua immagine venne usata come veicolo pubblicitario di prodotti per alpinismo e qualche volta la sua buona fede venne tradita da operatori senza scrupoli che non gli pagarono quanto dovuto.
L’attività professionistica, necessaria per vivere, non limitò mai la sua spinta amatoriale verso la scoperta e l’invenzione del nuovo. Note a tutti sono le sue campagne di ricerca, prima dei massi erratici della bassa valle di Susa, poi, capitolo infinito, delle cascate di ghiaccio nei luoghi più remoti, infine, spesso in competizione con me, la caccia alle pareti dimenticate nelle valli torinesi, nel Gran Paradiso e nel Bianco.
Ripensando oggi a Gian Carlo mi torna alla mente un periodo della nostra storia alpinistica quando si sviluppò il dibattito su una visione intellettual – filosofica dell’alpinismo: venne di moda leggere “Il Monte Analogo” di René Daumal, la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra. Si affermarono gli scritti di Bernard Amy come il celebre: “Il più Grande Scalatore del Mondo ( Tronc Feuillu”. In Francia comparve la rivista “Passage” con titoli del tipo:” Dal Settimo Grado al Settimo Cielo”. Si ragionava e disquisiva su una visione esoterica dell’alpinismo, proiettato a volte in una dimensione trascendente.
Io ero totalmente fuori da questi problemi, un amico aveva scritto che il mio motto era:<< ‘n tuca fe ‘d salite>>, Gian Piero mi prendeva in giro chiamandomi Manera “Pan e Pera”, ed io, in modo pragmatico, restavo fedele a questi stereotipi, definivo “seghe mentali” quelle elucubrazioni filosofiche.
Gian Carlo invece, tra tutti, fu l’unico che effettivamente scalando entrò in una dimensione trascendente, viveva l’ascensione come un sogno visionario nel suo “Giardino di Cristallo”. Un giorno mi confidò che non usava più il casco per scalare perché si sentiva talmente integrato nell’ambiente di ghiaccio e roccia che nulla poteva succedergli.
Qualche traccia dell’antico Calimero rimase in lui anche nella maturità: temeva ciò che gli appariva come atteggiamento critico nei suoi confronti, il dubbio lo rendeva permaloso e causò la rottura di importanti amicizie. Così se nella sua attività agì come ricercatore instancabile ed innovatore, rimase conservatore il suo atteggiamento nei confronti di alcuni nuovi fenomeni come le gare di arrampicata ed il nascere di vie attrezzate con ancoraggi fissi, salvo poi adeguarsi e fare propria quest’ultima realtà
Ugo Manera