Bec di Mea (Avancorpo) – via Gran diedro di sinistra

24 Ago 2023 | Aggiornamenti della Guida, Arrampicata, News & Articoli

Avancorpo del Bec di Mea. La rivoluzione silenziosa del “Gran diedro di sinistra”

Di Marco Blatto

Gennaio 1968. «Non verremo sconfitti, ripeto, non verremo sconfitti a Khe Sanh. Non ammetterò che si dica e nemmeno che si pensi il contrario». Così aveva tuonato contro il suo stato maggiore il generale Westmoreland, comandante in capo delle forze armate americane in Vietnam. Erano i primi giorni del 1968 e massicce truppe nord vietnamite, supportate da battaglioni vietcong, cingevano d’assedio i 6000 marines americani trinceratisi nel campo fortificato di Khe Sanh. L’incubo del ripetersi di ciò che era stata per i francesi la disfatta di Dien Bien Phu, ossessionava la Casa Bianca. Quella che avrebbe dovuto risolversi in una guerra lampo, da più di due anni si stava trasformando in un pantano suggellato dall’”Offensiva del Tet” e da cui difficilmente la più potente macchina bellica del mondo avrebbe potuto risollevarsi. Mentre ogni giorno centinaia di giovani americani facevano ritorno in patria chiusi in bare di zinco, cresceva il dissenso dell’opinione pubblica di tutto il mondo nei confronti della “sporca guerra”. Si trattava però di un movimento di protesta d’intenti ancora più ampi, desideroso di intraprendere una rivoluzione culturale che mirava a minare parte del sistema stesso della società occidentale, mettendone in discussione molti dei valori tradizionali. “Pace” e “amore” si unirono in modo quasi naturale con il tema della “libertà” e dei “diritti civili”, cosicché il colorato popolo della hip generation si trovò idealmente unito nelle piazze agli studenti, agli operai e ai cittadini comuni.  La “fantasia al potere” identificò lo spirito di quell’utopia rivoluzionaria, cui pareva non poter sottrarsi alcun ambito o fenomeno sociale. Non davanti ai cancelli della Fiat presidiati dai lavoratori o nelle aule delle università occupate della capitale subalpina, ma nel silenzio degli abeti e dei larici della Val Grande di Lanzo, un’altra “rivoluzione” iniziava a muovere i primi passi. Solo che i suoi profeti ne erano forse inconsapevoli. In quei giorni di gennaio del 1968, secchi e senza neve, perfino tiepidi in modo anomalo, un gruppetto di scalatori risale il sentiero forestale che s’inoltra nel bosco di faggi e poi di abeti rossi, poco sopra l’abitato della frazione Bonzo di Groscavallo. Ugo Manera, Gian Carlo Grassi e Carlo “Carlaccio” Carena sono tra i migliori scalatori torinesi del momento.

Ugo Manera nel 1970 sul tiro finale di A2

 

Li guida idealmente il “padrone di casa” Gian Piero Motti, che già dal 1964 ha iniziato a ricavarsi delle possibilità di allenamento per l’arrampicata, anche artificiale, vicino alla sua casa di frazione Breno. Poco per volta però, da semplici massi e brevi pareti, la ricerca si è spostata su strutture di maggiore sviluppo e l’arrampicata si è fatta più impegnativa e lunga, occupando anche intere giornate. Molti anni prima Gian Piero aveva risalito i margini delle placche rocciose, dove il torrente Unghiasse precipita verso valle con affascinanti cascate. Era stata una bravata da ragazzi adolescenti più che una scalata vera e propria, una delle avventure in cui amava trascinare i giovani amici villeggianti, armato di cordami di fortuna e con le scarpe da ginnastica. Da quelle balze lo sguardo si era avvicinato alla parete che emerge letteralmente dal versante boscoso e che in qualche modo sostiene la curiosa cupola rocciosa del Bec di Mea.

Pulizia dal basso

La cima vera e propria che domina la Val Grande. Aveva scorto, nel mezzo di quest’avancorpo, un formidabile tetto sporgente per oltre dieci metri, fantasticandovi una possibilità di salita. Quei giorni gli parevano lontani e al ragazzino sognatore si era progressivamente sostituito uno dei più promettenti alpinisti dell’ovest. Il gruppo di amici ha studiato bene la parete e ha intravisto la possibilità di numerose linee di scalata. La scelta, però, cade su quella più logica e articolata che sfrutta, sul lato sinistro della struttura, delle larghe fessure e un diedro molto aperto. L’arrampicata promette di essere magnifica e rude, con tratti di artificiale in cui saranno probabilmente necessari enormi cunei di legno per progredire. Tuttavia, anche l’arrampicata libera molto impegnativa vi troverà certamente spazio, sulle placche verticali, dove gli scarponi poggiano con discrezione sui caratteristici “occhi” di questo gneiss “ghiandone”. Tutto procede per il meglio, il sole è caldo e soltanto la poca neve che imbianca le cime più alte ricorda che si è in pieno inverno. Il diedro centrale è vinto in gran parte in arrampicata mista e con difficoltà sostenute, cosicché gli scalatori approdano su una comoda cornice, sopra la quale, però, la parete diviene aggettante. Sono allora costretti a piantare un chiodo il più in alto possibile per potersi calare nella placca compatta, e pendolare quanto basta per agguantare una lama.

Le belle fessure parallele del Gran Diedro

Per arrivarci sistemano due chiodi molto in basso uno dei quali servirà come appoggio per i pesanti scarponi di cuoio. La lunga traversata alla corda preclude un’uscita diretta: è impossibile, infatti, vincere la placca che li sovrasta. Al termine della traversata sostano ancora su dei cunei di legno al vertice della grande fuga di placche sotto i loro piedi, da cui parte una fessura obliqua di un altro marcato strapiombo. Con pochi ma espostissimi passi di A2 la fessura li conduce sulla “vetta” della bastionata. E’ così che nasca la via del “Gran diedro di sinistra”, forse in quel momento la scalata in roccia più dura delle Valli di Lanzo a bassa quota. Una vera rivoluzione silenziosa per quel tempo e quel “di sinistra”, per un curioso gioco di parole che sfugge alla geografia della parete, sembra far eco alle piazze. Nella testa di Gian Piero, però, alberga in realtà una magnifica “anarchia”, ed egli pensa piuttosto all’intensità dei momenti appena vissuti su quella parete, che gli parrebbe quasi riduttivo definire “palestra”.

La placca d’uscita di 6a in comune con la Via del Naso

Non lo sa ancora forse, ma ha già iniziato a maturare l’impianto di una “rivoluzione” filosofica che cambierà in modo importante la visione di alpinismo e arrampicata. Quando quel primo pomeriggio, al termine della scalata, il sole tramonta velocemente dietro la Cima di Monfret, un “nuovo mattino” si sta già profilando all’orizzonte.  Questa però è una storia che avrà bisogno di ancora qualche anno per evolvere e di un Gian Piero molto diverso, capace di fare di fare dei prodigiosi balzi in avanti nella visione, nel pensiero e nell’utopia. Un percorso che alla fine si rivelerà sostanzialmente suo personale. Questa, però, è un’altra storia. La notizia della scoperta del nuovo terreno di gioco del Bec di Mea fa presto il giro dell’ambiente torinese e nello stesso inverno altri arrampicatori vi si cimentano in nuove aperture. Tutti si tengono però a una distanza reverenziale dai due problemi principali della parete che subito sono apparsi al forte gruppo di amici: il superamento del grande tetto e della placca strapiombante che segue e, poco più a destra, il diedro strapiombante giallastro inciso sul fondo da una marcata fessura. La “Via dei Cunei”, che risolve questa seconda possibilità, vedrà la luce nel dicembre dello stesso anno, mentre, la “Via del Naso”, forse la più elegante e celebre, dovrà aspettare il 1969. Gian Carlo Grassi e Gian Piero Motti, in questo caso, dovranno mettere mano parecchie volte alle scalette e bucare la roccia, per vincere con i chiodi a espansione le lisce placche sopra il “naso” di roccia che sporge nel vuoto del grande tetto.

Negli anni settanta sul “Gran diedro di sinistra”, i bong di metallo figli dell’arrampicata californiana e forse anche un po’ del “Nuovo Mattino”, sostituiscono i vecchi cunei di legno, e nuovi chiodi di acciaio duro entrano a forza nelle fessure più sottili. Anche le protezioni a incastro rendono la scalata più sicura, così come la risoluzione di alcune sezioni fattibili in arrampicata libera. Al resto ci pensano le scarpette a suola liscia di gomma aderente che hanno soppiantato i vecchi scarponi di cuoio. Negli anni ottanta, quelli dell’“arrampicata sportiva”, le vie del Bec di Mea perdono però d’interesse. Si sa: una manciata di spit fa miracoli, specie se posta su una parete di comodo accesso.  Il “trittico” delle vie del Bec di Mea resterà così prerogativa di pochi appassionati rimasti legati a quella strana commistione di “tradizione” e “free-climbing”, ormai soppiantata dal mondo delle competizioni e dalla ricerca ossessiva del grado. Costituiranno però un bel banco di prova coraggioso per un’intera generazione di arrampicatori locali. Il riattrezzamento della “Via del Naso” degli anni novanta con l’introduzione dei fix, opera della guida alpina Claudio Bernardi con il supporto del soccorso alpino locale, riporta un po’ di attenzione sulla parete ormai dimenticata.

Il ballatoio della S5, alla base dell’uscita diretta e prima del pensolo

Non dal sottoscritto però, che al contrario ha continuato negli anni a combattere un po’ contro la vegetazione che si era riappropriata delle vie più classiche, specialmente del “Gran diedro di sinistra”, ombroso e più umido. Lo salirò diverse volte, alcune in arrampicata libera, altre facendo ricorso alle scalette in qualche tratto. Il difficile strapiombo iniziale, negli anni novanta è ancora protetto da un grande “bong” incastrato di traverso e solo il possesso dei friend della massima dimensione renderà più sereno il suo superamento. Anche il quarto tiro in artificiale obbliga a un’arrampicata libera rischiosa su dei vecchi chiodi corrosi dall’acqua, in un tratto spesso bagnato. Nel 1991 Amateis, Caresio e Pecoraro inventano un’uscita diretta della via che evita il traverso del pendolo. Dal ballatoio la linea segue una lama fessura molto fisica (6b+) interamente da proteggere, purtroppo non molto solida in un punto. Alla fine del nuovo millennio, sulla destra del grande diedro che assegna il nome alla via, durante una ripetizione scorgo un diedro secondario molto aperto ed esposto. Sono in parete con gli amici Enzo Ballo e Nicola Ghiani, e con la loro approvazione decido di tentare. Ho qualche chiodo e dei nut piccoli ma la questione si mostra subito ostica, perché la fessura è molto stretta. Alla fine riesco a raggiugere non senza fatica il terrazzo comune con la via originale, martellando uno stopper in una crepa come ultima protezione. Una bella variante è dunque aperta, ma le protezioni in loco, due chiodi e un nut in quindici metri, mi dicono subito che considerate le mode del momento non sarà molto ripetuta. Negli anni il “Gran diedro di sinistra” continua a soffrire l’obsolescenza e l’abbandono, così, nel nuovo millennio, mi chiedo se qualche fix al posto dei vecchi chiodi corrosi possa risollevarne le sorti. Con l’amico Ugo Gabrielli decidiamo pertanto di salire dal basso con il pesante trapano Bosch, piazzando pochi fix e ripulendo la via. Anche sul gradino strapiombante della fessura larga, due fix risolveranno infine il problema della difficoltà di protezione a chi non possiede i mitici e costosi friend di grandi dimensioni, pur senza togliere nulla all’obbligatorietà del passaggio.

1999 M.Blatto ed E.Ballo durante l’apertura della variante al Gran diedro

 

La via resta pur sempre quasi interamente da proteggere e i pochi punti fissi non hanno che sostituito i chiodi o i cunei esistenti. La fortuna però sembra sempre pendere dalla parte delle vie attrezzate in modo integrale e negli anni successivi il “Gran diedro di sinistra” continuerà a soffrire di una certa disattenzione, pur essendo una via che in sé racchiude tradizione, rivoluzione, modernità e bellezza. A poco varrà un successivo passaggio di Claudio Bernardi e Gian Carlo Maritano, che sistemeranno alcune delle soste, senza aggiungere nulla al nostro restyling precedente. La via continuerà a essere per lo più abbandonata e la vegetazione la farà da padrona per quasi vent’anni. Le poche ripetizioni (quattro o cinque in tutto) dovranno arrendersi alla progressione artificiale, tra le piante infestanti cresciute e i rovi. Finalmente, in questi giorni, mi si presenta l’occasione di ricomporre la cordata con l’amico Alessandro Lolli, istruttore della Scuola di alpinismo “Paolo Giordano” di Orbassano, nove anni dopo la nostra via nuova sulla Punta Clavarino 3260 m.

Il gradino strapiombante del secondo tiro

Approfittando dell’ottima pulizia del sentiero di accesso fatta dalle squadre forestali della Regione Piemonte, ripetiamo così la via, scalando e pulendo dal basso quella vegetazione che l’aveva ormai resa impraticabile. I fix piazzati vent’anni prima sono ancora ottimi, le soste a prova di bomba. Il tiro dei vecchi “chiodi corrosi”, il quarto, ci impegna non poco nella pulizia ma è presto restituito alle dita degli scalatori per fessure grandi e piccole. Anche Alex sale il tiro del “gran diedro” compiendo una vera acrobazia dal basso con il seghetto, il tutto per avere ragione di uno “strapiombo di rovi”. Adesso la linea è nuovamente fruibile, l’ennesima lotta contro il tempo e per valorizzare un modo di scalare “tradizionale” ma pur di una modernità disarmante. Mi torna così anche la voglia di ripulire il sentiero soprastante che avevo aperto vent’anni fa e che in breve conduce alla “cupola” del Bec di Mea. Esso permette di collegarsi alle tante vie che ho aperto lassù, ottenendo un viaggio di oltre trecento metri di arrampicata. In discesa, infine, decidiamo di calare dalla “Via dei Cunei”, anch’essa dimenticata e invasa dalla vegetazione. La “liberiamo”. Mentre scendo, il pensiero va a un giorno di ottobre del 1990, quando l’amico Luca Carretta volò sull’ultimo tiro della nicchia rompendosi l’astragalo del piede destro. Con i compagni, all’epoca tutti istruttori con me al Cai Uget di Torino, lo portammo alla base ed io me lo caricai sulle spalle fino a Bonzo. Scendemmo nell’oscurità quasi totale perché avevamo una pila frontale in quattro, che non fu nemmeno facile ritrovare negli zaini lasciati piuttosto distanti dall’attacco al celebre “Masso dei sacchi”. Anche questa, però, è un’altra storia…

Il Gran diedro del quarto tiro che da il nome alla via

 

Avancorpo del Bec di Mea

“Gran Diedro di sinistra”

180 m; RS2/II; 6b/c (6a/A1 obbl.)

Prima salita: Carlo Carena, Gian Carlo Grassi, Ugo Manera, gennaio del 1968

Restyling: Marco Blatto e Ugo Gabrielli, giugno 2005. Successiva sistemazione delle soste Claudio Bernardi e Gian Carlo Maritano. Variante al quarto tiro: Enzo Ballo, Marco Blatto e Nicola Ghiani nel dicembre 1999. Variante d’uscita diretta: Amateis Caresio, Pecoraro nel 1990.

Accesso: dalla frazione bonzo di Groscavallo seguire, al fondo del paese, il segnavia 322A che a un bivio con il 322 va a destra attraversando dei prati e una pista, per poi imboccare la mulattiera forestale. Detta mulattiera va abbandonata a quota 1220 metri circa, a favore di una traccia evidente a sinistra (cartello), che s’inoltra nel bosco a mezza costa fino allo storico “Masso dei sacchi”. Di qui la traccia sale ripida fino all’attacco della parete dell’Avancorpo Sud, dove presso uno spiazzo con ometto inizia il primo tiro comune con la “Via del Naso” e la “Via dei Cunei”.

l’itinerario , in rosso la variante Blatto-Ballo-Ghiani

L1: gradino ostico iniziale, poi placca delicata (6a).

L2: dalla sosta sul terrazzo fare un passo in discesa e salire la bella fessura che porta sotto un gradino strapiombante dove la fessura si allarga. Qui la rottura di un appiglio per la mano sinistra ha reso più difficile il passo, specie per i corti (6b/c). E’ possibile superare in artificiale il gradino ma con l’ausilio di una scaletta (A1, oppure A0 e 6b). Seguire poi la bella fessura da proteggere

L3: Superare con cautela una lama appoggiata e rinviare a un fix nel muro, poi uscita ariosa ma non difficile (4c/5a)

L4: da S3 conviene spostarsi a S3 bis sulla pianta con cordone per assicurare meglio il tiro successivo. Scavalcare dei blocchi e superare il muro strapiombante, spesso umido dopo periodi piovosi traversando a SX per afferrare una fessura diedro  (6b+ o A1 e 5c). Uscire su un muretto con fix e raggiungere il pulpito di sosta alla base del “gran diedro”

L5: salire la fessura che lo caratterizza fino a un fix dove a destra si può seguire la variante “Ballo-Blatto-Ghiani” (vedere sotto). Seguire la fessura fattasi più verticale e sfuggente e affrontare sulla destra un muro, poi un corto diedro con duro incastro (6b o A1) uscendo sul ballatoio di sosta.

Il quarto tiro di 6b+

L5: si può uscire direttamente lungo la fessura lama della variante “Amateis-Carena-Pecoraro” (6b+ o A2 interamente da proteggere) mentre la via originale richiede il famoso traverso del “pendolo”. Proteggersi con un 3BD nell’inizio della fessura della variante diretta, poi scendere verso lo spigolo dove si piazza ancora uno 0.4BD in un buco. Quindi girare in grande esposizione lo spigolino e risalire una lama facile fino a un fix. Di qui scendere pochi metri arrampicando fino al fix del pendolo con maglia rapida e cordone. Qui è meglio assicurarsi e slegarsi da una delle due mezze corde che va passata nella maglia, in modo che il secondo possa poi attraversare senza lasciare un rinvio. Farsi calare e raggiungere con breve pendolo una lama da cui si risale facilmente alla S6.

L6: si può uscire direttamente con la placca comune all’ultimo tiro della “Via del Naso” (6a un passo, a questo punto soluzione consigliata). Oppure si può raggiungere l’uscita originale del “Gran Diedro di sinistra”, salendo la placca fino al secondo fix per poi traversare a DX con tratto lungo, fino alla sosta alla base della fessura. Essa caratterizza il tettino finale, prima con andamento obliquo a DX, poi a SX. Il tiro offre un incastro impegnativo (6c o A1) dove sono consigliabili i guanti.

L’uscita originale del Gran Diedro

Variante Blatto-Ballo-Ghiani (1999)

Si tratta di una bella possibilità alternativa al tracciato originale del “Gran diedro di sinistra”, che rende la salita più lineare. Dalla S4 si prosegue un tratto in comune con la via originale puntando a un fix con cordone verde (questa protezione si può usare anche proseguendo lungo la via originale opportunamente allungata). Di qui diritti nel diedrino aperto, puntando a un evidente fix nel muro giallastro. La variante al diedro del quinto tiro, fu aperta nel 1999 con i soli chiodi (ancora in posto) ed è oggi stata riattrezzata con solidi fix e ripulita. Difficoltà 6a+. Uno 0.75 uno 0.3 e uno 0.4 BD sono comunque utili per integrare. All’uscita, per evitare un pericoloso raschiamento delle corde sul bordo del terrazzino, in caso di volo del secondo prima di ribaltarsi sulla piattaforma, è stato aggiunto un fix. Gli si passa sopra percorrendo la via originale da S5, prima di superare lo spigolo, con il traverso in leggera discesa. Questo fix è anche utile qualora si volesse proseguire direttamente sul tiro del “pendolo” senza fermarsi alla S5. All’uscita di L1 (comune con la “Via del Naso”) la sosta presente messa nel restyling delle guide alpine, non è funzionale per la prosecuzione sul “Gran diedro di sinistra” obbligando, se si sosta qui, a un pericoloso inizio sulla fessura da parte del primo di cordata. Abbiamo pertanto messo una S1 bis su due fix da collegare proprio alla base della fessura, raggiungibile con pochi passi in discesa sul terrazzino.

Restyling opera di M.Blatto e F.Chiarottino l’11/09/2023

Discesa: dalla S6 comune con la “Via del Naso” si può scendere lungo questa via con la spettacolare “doppia” dal grande tetto. Se si vuole scendere lungo la via del Gran diedro di sinistra”, dalla S6 bisogna spostarsi sulla piattaforma rocciosa al margine del bosco a SX, dove presso un larice vi è una sosta attrezzata con catena che è quella dell’”uscita diretta”. Di qui ci si cala lungo la fessura di questa linea fino al ballatoio dove vi è la S5, poi lungo la via di salita.

Materiale: friend BD fino al 3 raddoppiando dallo 0.75 in poi. Utili degli X3 piccoli e uno 0.4, sempre BD. Possono tornare utili una o due staffe. Due mezze corde di 60 m.

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