Proponiamo il ripristino della via sulla Torre Inferiore d’Arnas nell’omonimo vallone. Autore Andrea Bosticco, già apritore dell’itinerario
Quota: 1700 metri
Esposizione: Sud, al sole a partire dalle ore 10.00
Periodo consigliato: da aprile ad ottobre evitando le giornate più calde, è possibile arrampicare anche d’inverno, se la strada nel vallone è sgombera dalla neve
Roccia: prasinite compatta, con gran varietà di appigli, da netti a svasati
Stile arrampicata: atletica su muri verticali
Chiodatori: Andrea Bosticco
Attrezzatura presente: i tiri sono attrezzati con placchette e tasselli M10 inox, le soste sono a catena con anello per la calata
Materiale necessario: oltre alla normale dotazione personale sono sufficienti 10 rinvii e una corda singola da 70 metri
Copertura rete telefonica: buona
Accesso in auto: da Torino, direzione Lanzo e Germagnano, si prende a sinistra la Strada per la Valle di Viù, che si percorre fino alla frazione del Crot di Usseglio. Dal ristorante-bar della Furnasa (punto di appoggio) si svolta a destra per la stretta stradina che sale alla frazione di Castello da cui ci si immette nel Vallone d’Arnas. Si percorre tutto il Vallone fino alla sbarra, dove si parcheggia l’auto.
Avvicinamento a piedi: dalla sbarra si prosegue per la strada fino al quinto tornante, dove si intravede la scritta “Torre Inferiore”.
Per tracce di sentiero, in leggera salita, si attraversano i radi pascoli in direzione della imponente struttura rocciosa, posta in corrispondenza di un canalone [1 ora].
Via Sole che nasce Sole che muore
Aperta il 13/06/1998 da Bosticco Andrea e Molino Fabio
Richiodata nel mese di luglio 2022 da Bosticco Andrea
150 mt 5 lunghezze 6c max 6a obbl
Qui la relazione in formato PDF:
Torre Inferiore d’Arnas
Proponiamo di seguito le pagine del diario di Andrea:
Andrea Bosticco
31 LUGLIO 2022
TORRE INFERIORE – VALLONE D’ARNAS – VALLE DI VIÙ
6 giugno 1998 con l’amico Fabio Molino ci spingevamo a esplorare i torrioni posti sopra la parete della Losa d’Alais nel Vallone d’Arnas.
C’era solo voglia di scoprire, andare a mettere le mani dove ancora nessuno era passato, l’avventura la faceva da padrona. Si partiva presto e si tornava tardi, il menù prevedeva di cercare e se si trovava qualcosa di interessante, si procedeva fin che c’era luce oppure finché le energie lo permettevano o fino a quando le batterie del trapano non ci mollavano o non avevamo più materiale a disposizione.
La giornata iniziò alle prime luci dell’alba e terminò con le ultime luci all’orizzonte, da qui nacque il nome della via che aprimmo su questa torre ancor inviolata: “sole che nasce sole che muore”.
Fu la prima via aperta su parete verticale, compatta e su difficoltà elevate, e non ci concedemmo sconti: rigorosamente dal basso senza appendersi ai chiodi per riposare, con numero limitato di protezioni per rendere la salita obbligatoria dal punto di vista delle difficoltà.
Eravamo molto improvvisati ma forse proprio per queste ragioni ci divertivamo come matti, senza pretese, con il solo scopo di trovare pane per i nostri denti e progetti che ci stimolassero.
Nonostante la voglia di far conoscere le nostre aperture, pubblicando sulle riviste specializzate la nuova via appena aperta, non credo abbia mai avuto delle ripetizioni, se non un timido tentativo naufragato sul secondo tiro, dove ho trovato una maglia rapida alla sosta per una calata di emergenza.
Sarà che non ci preoccupavamo molto della pulizia della roccia o di qualche rovo che potesse infastidire il passaggio, né di eliminare massi pericolanti, bastava non toccarli. Usavamo tasselli da M8, piccoli, troppo piccoli verrebbe da dire oggi, ma a noi bastavano e poi dovevamo garantirci di avere abbastanza batterie per poter fare tutti i i buchi necessari per le protezioni da mettere, quindi meno ne facevamo più avevamo autonomia. E poi c’era quel tarlo nella mia testa che tra una protezione e l’altra si doveva arrampicare, mica perdere tempo o preoccuparsi del volo lungo.
Insomma altri tempi e altra testa. Oggi non funziona più così, o almeno non per tutti e dappertutto.
Da quando l’anno scorso sono stato coinvolto dall’iniziativa del gruppo Valli di Lanzo in Verticale, nel progetto di recupero e valorizzazione delle vie di arrampicata sulle pareti della Valle di Viù, mi sono dedicato alla richiodatura di alcune vie sulla parete della Losa sempre nel Vallone d’Arnas.
E poi c’era quella Torre, messa li sopra ad attendere una visita. E così è stata ben accolta l’idea di dedicarsi anche ad altre strutture per variare le proposte.
Ammetto che della via ricordavo ben poco se non un secondo tiro molto duro, ma l’avvicinamento abbastanza breve e tranquillo.
La prima volta che sono tornato alla Torre, carico come un somaro come sempre, mi sentivo molto agitato, proprio come quando ero un cacciatore di pareti con l’incognita della salita.
Percorrere la strada del vallone all’alba è sempre eccitante, il sole irradia le prigioni della Lera orientale e la cresta dei Cugnì si indora con i suoi pinnacoli. Tutto intorno è ancora immerso nell’ombra.
Arrivato alla sbarra a Pian Sulè, ci si prepara con calma , non si sente volare una mosca, l’unica nota stonata è il caldo già opprimente alle cinque del mattino. Vorrei ci fosse Fabio, magari con la sua Aprilia 125 con cui salivamo oltre la sbarra per portare il materiale senza dover faticare oltre.
Salgo piano con il sacco pesante sulla schiena fino al quinto tornante. C’è un gregge di pecore ancora mezze assonnate nel prato che dovrei attraversare, meno male che sono recintate perché i maremmani a guardia non sembrano essere molto cordiali.
Per fortuna che il gregge deve aver pascolato su quei ripidi pendii perché la traccia è letteralmente scavata e facilita il percorso.
Più mi avvicino, più la torre prende forma dalla gola che scende direttamente dai pendii meridionali della Punta Corna. È in ombra e incute un timore reverenziale.
Quando arrivo all’attacco non riesco ad alzare la testa per il mal di schiena causato dallo zaino pesante, mi siedo e prendo fiato. Cerco di ricordare le sensazioni che provai la prima volta che fui li sotto con tutta quella roccia sopra la testa, senza sapere cosa mi aspettasse ad attaccarla.
Ci sono diversi camosci sui ripidi versanti erbosi, qualche gracchio vola nei dintorni. Mi preparo con calma, ogni tanto scattando qualche foto. Non riesco a smettere di guardare la verticalità della struttura, mi intimorisce.
La cosa che mi incuriosisce di più nel ripercorrere vecchie vie aperte in passato e provare a cercare i chiodi che avevo messo, alle volte faccio fatica a trovarli. Oggi non ho più la testa di allora, o forse sono gli stimoli che sono cambiati, ma la determinazione non manca.
E così fermandomi sui provvidenziali gancetti inizio la danza dei movimenti lenti, delle giuste pause, il recupero del materiale, cercando di capire se la linea di salita può essere migliorata, raddrizzata, resa più interessante.
Quando raggiungo la prima sosta quasi mi commuovo: il cordone è letteralmente marcio, gli spits mi sembrano talmente piccoli e l’anello per le calate così sottile. Alzo lo sguardo sul famigerato secondo tiro, cerco di trovare gli spits che misi in apertura ma a parte il primo non riesco a scorgere gli altri. Mi faccio paura da solo. Ma che cavolo avevo nella testa? Poi ti chiedi perché nessuno andava a ripetere le tue vie!
Dovrò tornare altre due volte per portare a termine il lavoro. Un po’ per la pulizia da qualche rovo o ginepro, un po’ per delle roccette pericolanti da togliere, un po’ per il poco tempo a disposizione. Ma alla fine, arrivato lassù nella nicchia che accoglie l’ultima sosta, mi sono ricordato di quel giorno, quando, dopo aver recuperato il compagno in sosta, ci siamo slegati e siamo saliti per una piccola traccia di camosci in cima alla torre, proprio sul cucuzzolo seduti a fumarcene una in santa pace, tirando un sospiro di sollievo, con una energica stretta di mano a osservarci intorno, dalla Corna sopra di noi, alla Lera ormai scura al tramonto, alla strada inghiottita nell’ombra in fondo alla valle, con l’ultimo sole a scaldarci la pelle.
Mi manca, cazzo se mi manca.
Con il caldo di questa stagione ho patito molto la sete, al limite di avere i crampi cercando di recuperare il sacco in sosta, nel risalire le fisse ad ogni tiro. È stata proprio tosta, ma un buon allenamento.
Ad ogni tiro che salivo continuavo a guardare se li a fianco non ne potessi aprire un’altra di via. Foto e filmati per documentare il lavoro svolto, così da sentirmi meno solo, condividendo in tempo reale dov’ero e cosa stavo facendo.
Alcune curiosità: a parte volpi, stambecchi e camosci, pecore, mucche e capre, cani e un pastore senegalese, mi è capitato di trovare funghi e alcuni pipistrelli nascosti nelle fessure in parete. Ma la cosa che più mi ha colpito…
La parte centrale della parete è solcata da un bellissimo diedro rossastro di roccia compatta. E direte voi, sarà li che passerà la prossima via. Eh no! Su alcune cenge in via mi è capitato di trovare diverse piume di una certa dimensione e, proprio li a centro parete nel diedro, un nido dalle dimensioni sproporzionate, fatto con rami grossi. Provate a immaginare uno pterodattilo uscito da Jurassic Park, ecco siamo li.
Non so di cosa si tratti ma è abbastanza impressionante. Per contro, la linea a centro parete è da lasciar perdere, per non disturbare eventuali rapaci intenti a nidificare in parete.
Eh niente, spero di aver fatto un buon lavoro, che possa piacere, come spero possa incuriosire molti di voi che vorranno toccare con mano. Non mi resta che augurarvi buone arrampicate e augurarvi di percepire le stesse sensazioni, una volta raggiunta l’ultima sosta, e percorsi quei pochi metri che vi separano dalla cima della Torre Inferiore. Già perché la Torre Superiore sta proprio sopra la vostra testa: è la Punta Corna lassù in alto.