Pubblichiamo uno scritto di Ugo Manera sui 50 anni della prima salita del Caporal. Questa nota parete non si trova nelle Valli di Lanzo eppure, come ci spiega Ugo, la sua prima ascensione rappresentò l’apice di un percorso iniziato da qui.
Articolo pubblicato per gentile concessione della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti
il Caporal
I Dirupi di Balma Fiorant non si trovano nelle Valli di Lanzo, ma la strada che ci ha portati al Caporal è passata per quelle Valli: dal Plu,dal Bec di Mea ed anche dalla rocca di Lities. L’anniversario dei 50 anni coinvolge perciò quei bei posti delle Valli di Lanzo.
Il CAPORAL HA 50 ANNI
Il 4 novembre 1972 veniva portata a termine la prima via di arrampicata sulla più appariscente struttura rocciosa dei Dirupi di Balma Fiorant che sovrastano i tornanti della strada che conduce a Ceresole Reale in Valle dell’Orco. Lo stesso giorno l’imponente scoglio riceveva il suo battesimo con lo scherzoso nome di Caporal.
Stanno per compiersi 50 anni da quel giorno; i promotori e realizzatori di quella impresa: Ugo Manera e Gian Piero Motti, non immaginavano certamente che quel nome, inventato quasi per gioco, sarebbe diventato celebre come lo è oggi.
Caporal via Tempi Moderni apertura
Le vicende iniziali del Caporal sono già state raccontate più volte, ma in occasione di un anniversario importante come il mezzo secolo, mi sembra doveroso ricordarle nuovamente inserite nel contesto alpinistico di allora.
Siamo nella seconda metà degli anni ’60 e l’alpinismo di punta torinese gravita attorno a due istituzioni: il GAM (Gruppo Alta Montagna) UGET e la Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti della Sezione di Torino del CAI. La spinta dei giovani che hanno rilanciato l’alpinismo torinese, dopo il trauma della morte di Gervasutti, si sta esaurendo e Gianni Ribaldone, giovane promettente, con tutte le qualità per raccogliere il testimone, cade nel 1966 con due allievi della Scuola sul canalone Gervasutti-Chabod al Mont Blanc du Tacul.
Caporal Tempi Moderni apertura ottobre 1972
Negli anni a seguire i più attivi sono Ugo Manera e Gian Piero Motti ai quali presto si affianca Gian Carlo Grassi. Tutti fanno parte sia della Scuola Gervasutti che del Gruppo Alta Montagna. Grassi, coetaneo di Motti, compie con lui numerose scalate ma in posizione subalterna, Gian Piero è esuberante e determinato, ama scegliere lui gli obiettivi e condurre la cordata.
G.P.Motti al Caporal
La militanza comune come istruttori nella scuola di alpinismo offre a Motti ed a me la possibilità di mettere a confronto le nostre idee ed esperienze. Presto scopriamo di avere una visione comune sull’alpinismo e su futuri obiettivi; discutiamo molto e cominciamo ad arrampicare insieme ed a formulare tanti progetti. Ambedue preferiamo scalare da primo di cordata per cui cerchiamo di formare gruppo con amici portati ad andare da secondi. Scalando però scopriamo di trovarci meglio legati alla stessa corda alternandoci al comando e questa, quando è possibile, diviene la nostra soluzione preferita.
Quale era il mondo alpinistico di allora e quali i temi che accendevano e alimentavano le nostre interminabili discussioni?
Bec di Mea
Tramontato il periodo delle “super direttissime” con largo impiego di chiodi a pressione, la nostra attenzione ara attirata dalle impese più recenti e dai protagonisti che le avevano realizzate. Tra i tanti personaggi più o meno celebri due nomi emergevano (almeno ai nostri occhi): Walter Bonatti ed il francese René Desmaison. Bonatti aveva appena realizzato l’eccezionale impresa della nuova via in solitaria ed in inverno sulla Nord del Cervino ed aveva dichiarato di voler abbandonare l’alpinismo attivo di punta. L’interesse nel nostro gruppo era però più attratto dall’attività di Desmaison, rivolta non solo all’alta montagna ma ovunque vi fossero grandi problemi di scalata da risolvere.
Grandi novità erano arrivate dagli Stati Uniti. Fino ad allora l’alpinismo USA era da noi un perfetto sconosciuto, erano noti i tentativi americani sul K2 ma cosa ci fosse dietro praticamente nessuno lo sapeva con esattezza. Alla fine degli anni “50 giunse la notizia della scalata di una grande parete di granito, posta a quota relativamente bassa, in una valle della California, portata a termine nel novembre 1958. Ciò che colpì fu la durata dell’impresa: 17 giorni in parete per l’attacco finale ma con un impegno complessivo di 47 giorni di tentativi. A compierla degli sconosciuti: Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore. In Europa non si era abituati a tempi così lunghi per vincere una parete.
Bec di Mea 1969
Certamente qualcuno avrà pensato che si trattasse di una “americanata”, ma molti invece si interrogarono sul livello raggiunto da quegli scalatori. Non passo molto tempo che “gli americani” arrivarono sul granito del Monte Bianco a dimostrare le loro capacità tracciando nuove vie che, per difficoltà e stile, andavano oltre a quanto realizzato fino ad allora nel più importante massiccio delle Alpi.
Dal 24 al 26 luglio 1962 Gary Hemming e Royal Robbins realizzarono la diretta americana al Petit Dru. Nei giorni 17 e 25-26 luglio 1963 Tom Frost, Stewart Fulton, Jon Harlin e Gary Hemming tracciarono una via sull’Aiguille du Fou che per molti anni venne considerata la via su roccia più difficile delle Alpi. Infine dal 10 al 13 agosto 1965 Jon Harling e Royal Robbins realizzarono la “direttissima” al Petit Dru.
La fama degli scalatori californiani decollo, Yosemite Valley ed El Capitan divennero tra di noi nomi noti e presto giunsero in Italia anche i materiali innovativi usati dai “Californiani” sulle loro pareti di granito. Gian Piero Motti si interessò subito al “fenomeno” americano della scalata: leggeva tutte le riviste specializzate che arrivavano dall’America e dall’Inghilterra, interpretava con analisi attenta gli scritti più significativi e cominciò a tradurli per le riviste nostrane. Delle novità d’oltremare iniziammo a discuterne tra di noi mitizzando forse anche un po’ il fenomeno.
Monte Plu
Tra le altre cose ci parve di scoprire che l’avventura totale la si poteva trovare non solo sulle pareti delle grandi montagne ma anche sulle strutture alla sommità delle quali crescevano ancora i pini, purché, per essere vinte, richiedessero un impegno totale. Cominciammo a considerare le strutture rocciose sui fianchi delle valli non più come “palestre” di allenamento per le “grandi” imprese ma come obiettivi fine a sé stessi. Forse inconsciamente, iniziammo a cercare la nostra piccola California. Non che l’idea fosse una novità assoluta per il nostro ambiente, una determinazione simile era già stata messa in atto dai nostri predecessori sulla Parete dei Militi in Valle Stretta.
Dalle chiacchiere passammo all’azione ma in modo indipendente rivisitando le “palestre” note per tracciare nuove vie cercando qualche cosa che andasse oltre a quanto fatto dai nostri predecessori. Alla Rocca Sbarua Motti con Gian Carlo Grassi tracciò una bellissima via sul Torrione Grigio ed io, con Piero Giglio, tracciai tre nuove vie tra il 1966 e il 1967.
Rocca Sbarua
Al monte Plu, in val d’Ala di Lanzo avvenne l’incontro che suggellò il nostro sodalizio indirizzato alla ricerca di nuovi orizzonti. La struttura più possente del Plu è lo sperone Grigo ed era percorso da una via molto bella tracciata dai fratelli Fornelli con De Albertis. Tale via percorreva il fianco destro della struttura e lasciava intatto il settore centrale, molto promettente. Inevitabilmente il problema entrò nei miei obiettivi e nell’autunno 1967 con Fulgenzi e Giglio mi avviai per tentarne la soluzione. Nell’avvicinamento percepimmo dei rumori nel bosco e tosto comparvero Motti, Pivano e Re. Erano diretti al medesimo obiettivo. Unimmo le forze e tracciammo un bell’itinerario che divenne classico. Lo ripresi varie volte di cui una in solitaria e anni dopo, con l’avvento dell’arrampicata sportiva, riuscii anche a percorrerlo in libera.
Plu Sperone Grigio
Da quel momento Gian Piero ed io continuammo insieme la ricerca del nostro nuovo orizzonte. Egli soggiornava spesso a Breno in valle Grande di Lanzo dove aveva un alloggio. Conosceva ogni angolo di quella bella valle e naturalmente ogni struttura rocciosa; la più promettente appariva indubbiamente il Bec di Mea e nel gennaio 1968 vi tracciammo la prima via. Quell’inverno ed il successivo, caratterizzati da scarse nevicate, furono dedicati alle rocce della val Grande. Fu un periodo particolarmente felice, le nostre scalate avevano sempre, come ultimo atto, la merenda da Cesarin, “piola” di Breno ove Gian Piero era di casa. Sempre condotti da Gian Piero portammo la nostra attenzione anche alla Rocca di Lities il due marzo 1970, tracciando una prima via sullo sperone sud-est.
Gian Piero Motti al Bec di Mea 1969
Il periodo della valle Grande di Lanzo era stato molto bello e ci eravamo divertiti ma su quelle rocce non avevamo trovato quell’impegno totale che stavamo cercando sognando la nostra piccola California: troppa poca differenza rispetto a ciò che già era stato fatto in precedenza. Nelle mie fantasie di scalata continuavo a domandarmi ove cercare un obiettivo degno, e certamente Gian Piero si poneva la stessa domanda.
Un giorno mi si accese la classica lampadina: le pareti sopra i tornanti della strada per Ceresole Reale. Tante volte le avevo guardate diretto nel Gran Paradiso ma senza formulare progetti di scalata, erroneamente immaginavo che su quei liscioni granitici si potesse progredire solo con grande impiego di chiodi a pressione, tipo di scalata che non intendevo praticare. Le esperienze fatte con Gian Piero, alla ricerca di nuovi obiettivi in falesia, unitamente alle conoscenze apprese leggendo riviste americane, inglesi e francesi, cambiarono il mio punto di vista e quasi improvvisamente mi scoprii convinto che i dirupi di Balma Fiorant potevano essere scalati grazie al bagaglio tecnico da noi acquisito e senza l’indiscriminato uso del perforatore. Immediatamente fui preso dalla frenesia di passare all’azione.
Caporal primo tentativo via dei Tempi Moderni
Un giovedì sera mi recai nella sede CAI Torino determinato a trovare un compagno per organizzare un tentativo. Entrando nei locali di via Barbaroux 1 intravvidi subito Gian Piero; era indubbiamente il miglior candidato possibile a cui proporre il mio progetto. Come iniziai a parlare egli scoppiò a ridere e mi confessò che due giorni prima si era recato alla base di quelle rocce animato dai miei stessi propositi per scoprire una linea possibile di salita, e credeva di averla individuata. Non fu necessario aggiungere altro, passammo subito al progetto esecutivo: ci accordammo sui materiali e concordammo sull’opportunità di trovare altri due compagni in modo da attaccare divisi in due cordate.
Caporal
Era un periodo autunnale di tempo splendido così la domenica successiva, lasciata l’auto sui tornanti della strada che sale a Ceresole Reale, ci avviammo in quattro verso i dirupi di Balma Fiorant seguendo il percorso trovato da Motti pochi giorni prima. A noi due, ideatori del progetto, si erano aggiunti Guido Morello ed Ilio Pivano. Ci portammo nel punto di attacco individuato da Gian Piero e, impazienti di passare all’azione, ci legammo in cordata Gian Piero ed io. Il mio compagno si avviò per il primo tiro lungo una serie di fessure piuttosto umide. Piantò numerosi chiodi e si fermò su un piccolo ripiano; io lo raggiunsi lasciando i chiodi per la seconda cordata e, curioso di vedere cosa mi attendeva, proseguii velocemente per il secondo tiro mentre Morello, in testa alla seconda cordata, raggiungeva Gian Piero in sosta. Toccava ad Ilio chiudere la processione, ma fatti pochi metri, imprecando, ci dichiarò che su di lì non sarebbe salito e si fece calare. Non restava altro da fare che legare Guido ad una delle nostre corde, lasciare in loco chiodi e moschettoni usati nel primo tiro, e proseguire in cordata da tre.
I Dirupi di Balma Fiorant Sergent Caporal Parete delle Aquile
Gian Piero condusse un terzo tiro poi tocco a me superare una bella e difficile lunghezza che ci portò alla base di una liscia placca compatta senza fessure. In previsione di un ostacolo di quel genere Motti si era portato un punteruolo e tre chiodi a pressione; armato di tali attrezzi si avviò lungo la placca, salì fino a quando sentì la necessità di proteggersi poi, in posizione precaria, iniziò a battere sul punteruolo per praticare un foro atto a ricevere un chiodo a pressione. Alla terza martellata il punteruolo gli sfuggì di mano e precipitò tintinnando lungo la parete. Non avevamo punteruoli di ricambio e ci trovammo cosi (usando un’espressione tipica del nostro simpatico amico Carlaccio) “come tre uccelli su un ramo”.
Valle dell’Orco dirupi di Balma Fiorant
Non ci rimaneva che apprestarci a ridiscendere in corda doppia con le pive nel sacco quando udimmo una voce che ci chiamava dall’alto. Con eccezionale preveggenza Pivano era salito lungo il canalone che costeggia la parete raggiungendone la sommità e, con ammirevole intuito, si era portato appresso due corde e non solo. Legò insieme le due corde, le fisso ad un larice e le calò lungo la parete nella nostra direzione, Così ingloriosamente conquistammo la sommità del dirupo con salita a mezzo nodi Prusik. Allora io avevo l’abitudine di portarmi sovente appresso, fino alla base della parete ovviamente, una bottiglia di barbera di pregio che io stesso imbottigliavo. Ilio, con abnegazione e coraggio, insieme alle corde, si era portata in cima la mia bottiglia così festeggiammo immeritatamente con brindisi abbondante la nostra conquista abusiva dei dirupi di Balma Fiorant.
1966 In apertura via Manera di Sinistra alla Rocca Sbarua
Due settimane appresso Gian Piero ed io eravamo nuovamente lì per completare l’opera. Non c’erano più con noi i due amici del primo tentativo; il loro posto era stato preso da Vareno Boreatti e Flavio Leone, ci accompagnava la allora fidanzata di Flavio: Giuse Locana, una ragazza in gamba e spiritosa, purtroppo portata via poi dal solito male. Ci avrebbe atteso alla base e sue sono le due foto delle due cordate in azione, comparse in molte pubblicazioni.
Gian Piero attacco per primo in cordata con Boreatti, io seguii legato con Leone. La salita si svolse senza intoppi, saggiamente avevamo portato un punteruolo di ricambio ma fu necessario un solo chiodo a pressione sulla placca che aveva fermato il primo tentativo. Toccammo la sommità in preda ad un entusiasmo esagerato, soprattutto da parte mia e di Gian Piero, avevamo finalmente dato inizio al nostro Nuovo Mattino.
Bec di Mea via del naso
Ritornati alla base dove ci attendeva Giuse, brindammo, questa volta meritatamente, con la solita barbera. Nell’allegria generale ci proponemmo il tema di dare dei nomi alla nostra scoperta: Gian Piero aveva già in testa il nome dell’itinerario aperto: la Via dei Tempi Moderni. Io feci un piccolo scherzoso ragionamento sul nome da dare alla parete: Il nostro monolite non era meno bello dello Yosemitiano Capitan, era solo molto più piccolo ed allora lo potevamo collocare in una scala gerarchica più bassa: se quello era Capitano, il nostro poteva benissimo essere un Caporale. La mia proposta piacque all’unanimità e Caporal fu.
Ugo Manera