Il Couloir Est del Martellot, una salita invernale

29 Ott 2019 | Articoli e racconti

di Luca Enrico

Inverno strano quello di fine 2015, un dicembre secco, quasi privo di neve, relegata solo in quantità modesta sulle vette più alte. In compenso i colori sono bellissimi, quasi ancora autunnali.

Sdraiati sulla cengia della Giagiomik, tra un tiro e l’altro, tra una richiodatura e l’altra, osserviamo le montagne del fondovalle.

Che bello sarebbe essere lassù!

Queste giornate sono così belle e terse, un vero peccato non trovarsi su quelle vette, su quelle creste…

Forse non siamo nemmeno allenati, sono mesi ormai che il dislivello maggiore che superiamo è per arrivare in falesia… adesso lassù è tutto bello e attraente ma l’ambiente è freddo, invernale, non ci si può permettere di perdere tempo, di essere lenti…

Forse continueremo solo a guardare, e poi basta anche solo una nevicata e niente sarà più fattibile.

E intanto scaliamo. Ma osserviamo. Il lento formarsi del ghiaccio. La cristallizzazione dell’acqua.

Qualcosa appare tra quelle bastionate, il ghiaccio riverbera la luce del mattino. Un nastro bianco va via via aumentando.

Il sottile filo che lega la base della bastionata alla vetta va delineandosi. La poca neve modella e disegna ciò che in estate è impercettibile.

Il sottile filo della determinazione comincia a trainarci verso quei luoghi.

Ma se nevica tutto è perduto, una sola piccola nevicata…

Il bel tempo persiste e arriva il Natale. E quel tarlo ormai ha cominciato a roderci.

I giorni seguenti andiamo ancora alla Giagiomik e il sottile nastro è sempre là, più bello che mai…

Il tempo è ancora buono, forse cambierà solo l’ultimo dell’anno. Non si può più tergiversare, non si può più dire “ma tanto sarà ancora in condizioni”, l’ora delle scelte è scoccata, ormai irrevocabile. Il 28 e il 29 è ancora bello, il 30 tiene, poi forse peggioramento dal 31.

Si parte. Siamo in quattro. Anzi in cinque, dovremmo essere. Ma un malanno di stagione sembra voler inchiodare il nostro amico Luca a casa.

Io, Teo, Paolo e Diego partiamo nella tarda mattinata e ci fermiamo a Cantoira a mangiare qualcosa, compriamo un pezzo di pizza e lo consumiamo sugli scalini che portano al campo di calcio. Si sta bene, non fa assolutamente freddo, nonostante il periodo di vacanza il paese è deserto. Tra poche ore saremo lassù, nel piccolo invernale del Daviso. Come sempre in questi casi l’animo si dibatte tra la voglia dell’azione e l’inerzia a partire, a lasciare le comodità e la rilassatezza.

Forno è completamente in ombra, in questa stagione lo è sempre. E’ tutto così diverso dall’estate, il terreno è duro e gelato, la luce fredda uniforma il paesaggio, sembra di muoversi in un mondo senza vita, eppure affascinante.

Saliamo le prime ripide svolte del sentiero con passo regolare, lo zaino pesa, i pensieri accompagnano il ritmo cadenzato del nostro incedere, ognuno raccolto nelle proprie meditazioni, sulla salita che sarà, ognuno intento a centellinare le forze e le energie.

Chissà come sarà il ghiaccio sulla cascata iniziale? Chissà come sarà sbucare al colletto finale nella luce invernale?

Domande che si affollano incessanti nella mente….

A metà sentiero, sul grande piano, sentiamo muovere gli arbusti. Un animale? Ci pare di vedere qualcosa tra le fronde ma c’è nessuno, nessuno viene quassù in questa stagione. Poi guardiamo meglio…

E’ Luca!

Lo vediamo salire con passo spedito, in poco ci raggiunge. Adesso siamo in cinque.

Arriviamo al rifugio, l’invernale è piccolo ma in fondo accogliente. Che bello varcare quella porta in questa stagione, trovare quel ricovero, anche se freddo, è ora fondamentale, non come in estate. Ci sistemiamo al meglio e iniziamo i preparativi per la cena, un rituale che si ripete sempre uguale ma che sempre conserva qualcosa di magico e unico.

Il rituale dell’acqua è come sempre il più sofferto, soprattutto quando il gelo tutto blocca. Ma per fortuna un piccolo rivolo scorre sulle rocce accanto al rifugio. Bisogna fare presto prima che il freddo della notte invernale lo trasformi in ghiaccio.

Siamo qui, in cinque, sperduti in questo paesaggio indurito dal gelo, la notte arriva presto… anche il suono della sveglia arriva presto.

Dobbiamo tuffarci fuori, nella notte. Non ci si abitua mai a questo momento. I primi passi sono incerti, impacciati. Fa freddo ma si suda. Bisogna prendere il proprio ritmo.

Un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro… la morena e poi il plateau di neve. La neve è crostosa, a tratti gelata bene solo in superficie, a tratti si sfonda.

La cascata è li davanti, quel sottile filo a cui abbiamo anelato dalla solatia Giagiomik adesso è davanti a noi.

Tutto si è avverato. Siamo finalmente qui, dopo tanto scrutare e sognare.

L’alba si delinea all’orizzonte. Il sole sorge e il ghiaccio si colora di quella luminosità che solo queste quote sanno donare.

Ci sentiamo fortunati, la valle è ancora avvolta dalla notte ma noi possiamo inebriarci di quella prima luce.

Il ghiaccio a tratti è duro, qualche pezzo parte ma il casco fa il suo dovere. Due salti dritti poi finalmente il canale di neve, ampio, a foggia di catino.

Sopra di noi la parete immensa, torri e pinnacoli ci sovrastano. La neve e il ghiaccio la striano, sembrano forme artistiche, modellate dalla mano dell’Inverno.

Un ambiente surreale, illuminato dal primo sole che però durerà poco. Assorbiamo quel calore ben sapendo che correremo verso la notte.

Finito il catino di neve il couloir continua a sinistra. Si infila con andamento sinuoso tra quelle ripide pareti. Sembra costruito apposta.

Un po’ di ghiaccio, poi neve compressa. Ogni gomito, ogni curva è una meraviglia.

L’ambiente è grandioso, selvaggio, di una bellezza indescrivibile. Basterebbe un’interruzione, una sola, per rompere quella magia, e invece il canale continua e continua ancora.

Il filo invisibile verso la vetta si srotola poco alla volta.

Un paio di ostici tratti di misto ci fanno un po’ tribolare. Qui dobbiamo assicurarci, passare così sarebbe troppo rischioso, basterebbe un errore per ritrovarsi in fondo.

Ormai sotto i nostri piedi il couloir si perde verso la morena, le forme finali del crinale si delineano sempre più nette, sempre più vicine.

Ormai siamo sotto al colletto, ancora poco, ancora un piccolo sforzo.

Una foto al primo. E‘ un po’ sfocata, incerta, eppure per questo ancora più bella e affascinante, quasi a non voler evidenziare davvero, e fino in fondo, le emozioni di quell’istante.

Sul crinale una striscia di sole. Finalmente.

Essere lì, in pieno inverno. Il sogno si è avverato.

Ma il vento che spira dal versante francese è gelido, dobbiamo scendere. La discesa, ne siamo ben consapevoli, sarà solo una salita al contrario, non meno impegnativa. Anzi.

Disarrampichiamo un tratto e quindi traversiamo sui ripidi pendii puntando verso la Sella di Groscavallo.

La discendiamo un po’ in doppia e un po’ a piedi. Il buio invernale ci coglie sui dossi dove sorgeva il vecchio bivacco.

Sembra un paesaggio alieno, il bianco e la notte lo rendono tutto uguale ma per fortuna ci è famigliare e così riusciamo a trovare la strada verso il bivacco Ferreri.

Traversando lungamente raggiungiamo di nuovo il Daviso. Paolo e Diego scendono, Teo, Luca ed io decidiamo di fermarci ancora qui. Ci assaporiamo così fino all’ultimo questa bella avventura, stando lì riusciamo ancora a vivere istanti unici e irripetibili, a fissarci nella memoria le istantanee di una grande giornata.

La mattina del 30 è livida. Il tempo sta cambiando. Scendiamo piano con la nostalgia di questi luoghi.

Sotto ci concediamo un pranzo in trattoria, per noi meglio di qualsiasi cenone del Capodanno ormai prossimo.

La neve arriverà copiosa quasi a custodire quello che è stato un sogno, un desiderio esaudito.

 

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